Rocco era lì da mezz’ora ad aspettare che il sole di ottobre scendesse pigramente dal suo regno azzurro accarezzando le cime dietro Grumento.
Lo spettacolo del tramonto purpureo lo aveva di nuovo rapito. Con gli occhi pieni del prodigio non si era nemmeno accorto del falco che volteggiava silenzioso nel cielo. Quando notò il re del cielo non trattenne un moto di invidia per quel fortunato che aveva libertà assoluta. Il chiarore cominciò a giocare con le ombre del tramonto creando chiaroscuri che solleticarono la fantasia di Rocco. Poi le campane suonarono l’Ave Maria e capì che era il momento di tornare a casa.
Mamma Zarafina lo aspettava preoccupata: «Non devi attendere il buio per tornare perché se ti prendono i pulmunari ti mettono in un sacco per poi mangiarti!».
Rocco finse di spaventarsi e promise di rientrare prima in futuro, ma sorridendo pensò «Uè mà, ma chi vuoi prendere in giro, lo so che i pulmunari escono solo la notte di Natale…».
Si approssimò alla furnacedda per sollevare il coperchio della pignatta. L’odore dei fagioli con la cotica di maiale lo inebriò al punto di fargli emettere uno squittio. Poi si riprese e andò felice a lavarsi le mani nel vacìl’. Si avvicinò al varrilaro e batté un colpettino sul barile che suonò di vuoto.
«Luiggì, presto, vieni che dobbiamo andare alla fontana a riempire u varrìl’!», gridò. Luigino apparve dal piccolo bagno col naso che colava.
«Tieni la caramella che ti scorre dal naso! Toglitela!». Luigino rapido pulì tutto con la manica della maglia e sorridendo replicò: «Sciam’ a piglià l’acqua».
Per la strada la timida luce dell’illuminazione pubblica lanciava una sfida agli occhi dei due fratelli che arrivarono spediti alla fontana della piazza. Conoscevano a memoria ogni centimetro del percorso e ogni buca della strada.
Accanto alla fontana c’era Zi’ Pietro, un guercio vecchio e sporco che puzzava di cilòfria e di capre. Portava una lurida coppola con la visiera che calava sul naso per nascondere l’occhio sinistro offeso e per guardare avanti piegava la testa all’indietro e a sinistra; tra un fiasco di vino e l’altro, godeva nell’impaurire i bambini.
Aveva appena riempito un ùmmulo di acqua quando, vedendo i fratellini, li apostrofò con voce roca: «Voi due ieri sera avete appicciato la fontana. Adesso vado dai Carabinieri! ».
Luigino piangendo negò: «No, non siamo stati noi!» e corse via lasciando Rocco che non riuscì a mantenere il barile, che cadde sui piedi di Zi’ Pietro. Latrando dal dolore il vecchio infilò una serie di bestemmie da riempire due mesi e mezzo di calendario. E, guercio e zoppo, prese la via del suo catafuorchio.
Il barile iniziò a rotolare allegramente sui ciottoli della strada che portava m’per a terra. Rocco preoccupato zompettava intorno cercando di bloccarlo. Per fortuna Zia Filumena, che stava radunando davanti al paraciedd le sue quattro galline, temendo per la sorte delle bestiole, coraggiosamente si parò davanti fermando il barile impazzito.
Dopo qualche minuto riapparve trafelato Luigino, rasentando le ombre delle case: «Ro’, – ancora spaventato – ma i Carabinieri sono già andati via?». «Ho detto che sono stati due zingarelli ad incendiare la fontana e loro ci hanno creduto!», mentì Rocco. Luigino quasi pianse, commosso da un fratello così furbo e coraggioso. Si offrì quindi di portare da solo il varrìl’ carico d’acqua…
Mamma Zarafina era in compagnia di sua madre, nonna Vicenza e stava accudendo Rosa, l’ultima arrivata. Aveva già sistemato lenzuoline e copertine nella naca e ora stava fasciando le gambe della bimba con una benda lunga come le bestemmie di Zi’ Pietro. Alla fine della complessa operazione Rosa sembrò immersa in un grande bozzolo dall’ombelico ai piedi: «È per far venire le gambe belle dritte. L’ho fatto pure a voi due. E nonna Vicenza l’ha fatto a me!», disse mamma Zarafina.
Nonna Vicenza chiese ai fratellini: «Avete visto Tatt e Tattarànn’?» E Luigino: «Papà e nonno Luigi sono alla cantina di Zimbarosa a giocare al “padrone e sotto”. Il nonno sbraitava perché Vito u cantunier’ lo ha schiumato all’olmo tre volte. Ha sentito solo l’odore del vino, neanche una goccia ne ha bevuto!».
Dopo pochi minuti arrivarono i giocatori, pregni dell’olezzo di vino di spunta e di birra che regnavano nella cantina: «Zarafì, che mangiamo?». «Mo’ apparecchio la buffetta e poi ci mangiamo rappasciola e un poco di noglia».
Dopo cena la nonna raccontò a Rocco storie fantastiche di briganti mentre Tattarann’ seduto sulla vecchia sedia impagliata sistemò Luigino a cavalcioni sulla sua coscia e, giocando sulla punta del piede, simulò il trotto del cavallo accompagnando il movimento con un verso arcaico: «Torlorò, torlorò…».
I racconti e la trottata stimolarono il sonno dei piccoli. Mamma e nonna li adagiarono nel letto piccolo, uno a capo e l’altro ai piedi. Il letto era in ferro, tavole di legno sorreggevano il materasso di cuoppoli. Le lenzuola erano di lino filato col fuso e tessuto dal telaio di nonna Vicenza. La ruvidezza del tessuto era ammorbidita dalla dolcezza del sonno dei due fratellini.
Quella notte Rocco sognò il falco che la notte di Natale attaccava i pulmunari costringendoli e precipitare nel buco orrendo dal quale erano usciti. Luigino invece sognò due Carabinieri che portavano in galera Zì Pietro.
Il sole ancora assonnato del nuovo giorno assisteva alla guerra canora tra Ciciriello, il cane di Tattarann’, e il gallo di Biase il moliternese che abitava a fianco. Ad ogni canto del gallo corrispondeva un ululato di Ciciriello. Il concerto era una sveglia formidabile anche per Ciccillo, il minatore, che in miniera aveva perso gran parte dell’udito. Quando gli si chiedeva come stava, rispondeva: «Nun m’ pozz’ lamentà, a parte ‘a senduta!».
Mamma Zarafina svegliò i bambini perché Rocco doveva andare alla scuola elementare dove frequentava la seconda classe e Luigino all’asilo delle suore. Lavati e vestiti, i due fratellini trovarono sulla buffetta lo zabaione con un goccio di caffè e due fette di pane tagliate a strisce da intingere nell’uovo. La mamma aveva già preparato anche la baschetta di Luigino con pane e toma per lo spuntino di metà mattinata e una fetta di pane, da bagnarsi, con un poco di zucchero per la merenda. Indossati i grembiulini, i bambini si avviarono verso i rispettivi luoghi di prigionia.
La sirena della chiesa ululò alle otto e mezza segnando così l’inizio delle attività scolastiche. Rocco entrò in classe e si accomodò al suo posto a fianco di Mariuccio, il figlio del fabbro. La maestra si mise a spiegare velocemente un misto di storia, geografia, matematica e grammatica per poi uscire dalla classe raccomandando ai ragazzi di stare in silenzio.
Un attimo dopo la chiusura della porta si scatenò il diavolìo: questi che scazzottavano, quelli che si sfidavano a peti, quegli altri che giocavano a braccio di ferro, mentre alcuni gareggiavano fischiando, con le dita in bocca a mo’ di pastori e spaccando i timpani a tutta la scolaresca.
All’asilo delle suore Luigino stava aspettando la campanella della ricreazione delle 11 per mangiare pane e toma. Era stato fino allora a giocare nel chiazzile dell’asilo. Lo spiazzo era abbastanza grande ed era circondato da un alto muro.
L’ingresso era sbarrato da un portone di legno che dava l’idea di un carcere. Ogni anno si ripeteva per i nuovi arrivati il rito del pianto a dirotto non appena veniva chiuso il portone. Poi qualche scappellotto o qualche schiaffo sul sedere mettevano magicamente a posto le cose.
Finalmente suonò la campanella e Luigino si fiondò sulla baschetta per calmare lo stomaco che reclamava cibo. Con l’acquolina in bocca stava per dare il primo morso quando il portone della strada si aprì ed entrò un 615 sferragliante col motore che emetteva un borbottio simile al tentativo di discorso di un ubriaco di carriera.
Il camioncino si fermò ad un lato del chiazzile e smontò mast’ Pepp’ il falegname; dal posto di guida scese con superba e regale lentezza l’autista.
Luigino, ancora con la colazione in mano, e gli altri bimbi si avvicinarono incuriositi. L’autista abbassò la sponda del mezzo e mast’ Pepp’ cominciò a scaricare alcune travi di legno, delle funi e due tavole colorate di giallo. Poi scaricò la cassa con gli attrezzi e cominciò ad avvitare e ad inchiodare fra loro i pezzi. Ad ogni colpo di martello ed a ogni giro di vite la curiosità generale aumentava e, alla fine dell’opera, cedette il posto allo stupore. I due adulti sollevarono quell’insieme di travi, corde e tavole e magicamente si erse una imponente struttura. Era un’altalena! Mast’ Pepp’ vi montò in piedi per collaudarla. Infine, soddisfatto, invitò i bambini a provarla.
Immediatamente si scatenò una polverosa ressa. Le suore intervennero per ripristinare l’ordine al prezzo dell’imbiancamento del loro abito nero.
Arrivò così l’ora del pranzo. Le suore rimisero in fila i bambini e li accompagnarono al locale che fungeva da mensa. Dalla cucina proveniva un odore di pasta e fagioli inebriante.
Dopo pranzo, mentre Luigino, all’asilo, era costretto a fare il riposo pomeridiano piegato sul banchetto con la testa poggiata sulle braccia conserte, Rocco prese l’arco e la freccia che aveva costruito coi ferri di un ombrello vecchio e si recò sul sagrato della Chiesa dove ritrovò i suoi amici, tutti con la stessa arma. Sulla porta della cantina di Nicol’ ‘u sciangat’ avevano disegnato un bersaglio tracciando dei cerchi concentrici con della calce. A turno tirarono la propria freccia generando una vera e propria gara. Il gioco finì, come spesso accadeva, con gli strilli che annunciavano l’arrivo di Nicola, imbestialito per gli ulteriori danni che i piccoli arcieri avevano causato alla porta, e il fuggi-fuggi dei piccoli guerrieri.
La sirena delle 17 ricordò ai fuggitivi che era il momento di andare in canonica per il catechismo con don Umberto. Anche i più discoli e scapocchioni andavano con piacere agli incontri religiosi perché don Umberto alla fine, distribuiva i Chiclets che gli emigranti mandavano. Seguiva una mezz’ora di pulizia di candelabri ed altri oggetti, dopodiché ai bambini veniva concesso il privilegio di poter giocare al biliardino e al tiro delle freccette. C’era anche una dama, ma quello era un gioco per raffinati…
Luigino arrivò ansante per annunciare l’arrivo a casa dei nonni paterni, Rocco e Rosa, che abitavano a Montemurro.
Eccitati, infilarono il portale d’ingresso della canonica e a perdifiato s’involarono verso casa. La piazza assolata li colse di sorpresa abbagliandoli. Un’ombra tagliò l’intensità della luce radente del crepuscolo. Un grande falco galleggiava sul fiume dorato. L’incanto gli incollò le suole al suolo e lo stupore si tramutò in saluto. E, con la mano alzata, Rocco salutò nel sole l’amico falco, libero sovrano del cielo.
gionar_92@libero.it
RispondiEliminati è stato spedito l'invito in posta per partecipare al blog collettivo come autore
Eliminabellissimissimo questo racconto Anna.. è meraviglioso.. baci
RispondiEliminaGiusy
il racconto è dell'autore Franco Vetrano :-)
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