MISTERIUM FESTIVAL
MUDI - MUSEO DIOCESANO
DI ARTE SACRA
TARANTO
12 APRILE - 10 MAGGIO 2014
Inaugurazione sabato 12
aprile ore 18.00
Sulle tracce del Sacro
CRISTIANO DE GAETANO
GIULIO DE MITRI
GIUSEPPE SPAGNULO
a cura di Roberto Lacarbonara
La memoria è Spirito,
manifestazione perenne ed essenziale dell’esistenza, presenza che oltrepassa se stessa e sfocia
nell’eterno.
Con la presenza di tre
noti artisti tarantini, Cristiano De Gaetano, Giulio De Mitri,Giuseppe Spagnulo,
appartenenti a generazioni, formazioni e linguaggi artistici differenti, si
terrà al MUDI– Museo Diocesano di Arte
Sacra di Taranto – nell’ambito di Mysterium Festival, La Settimana Santa aTaranto tra Fede, Arte,
Storia, Tradizione e Cultura – sabato 12 aprile ore 11,00 l’inaugurazione della
mostra di arte contemporanea Sulle
tracce del Sacro , una ricerca volta ad attraversare il mistero della spiritualità, interrogare il sacro,
porre la questione della relazione tra uomo e trascendenza.
L’arte, ed il suo processo
di conoscenza sensibile che avvicina l’umano alle più alte manifestazioni della bellezza e del
creato, rappresenta uno strumento fondamentale per attingere alla radicale
indicibilità della vita, per mostrarne
luminosità e zone d’ombra, per esibire il tragitto di coscienza e
consapevolezza con cui l’uomo indaga su se
stesso.
CRISTIANO DE GAETANO
(Taranto 1975 - 2013).
Ha compiuto studi artistici
(Istituto d’Arte e Accademia di Belle Arti). Artista poliedrico, vitale,
ironico, caustico, dotato di quell’arguzia impertinente di chi si diverte un mondo a spaiare
le tessere del nostro puzzle epocale, praticando un disinvolto “surf” tra
fascinazioni estetiche di ambiti diversi, in cui innescare cortocircuiti inediti e
spiazzanti. Virtuoso nel manipolare tutti i linguaggi (fotografia, pittura,
scultura, video), era capace di costruisce storie o situazioni grottesche che insinuavano dubbi
sotto la pellicola dell’universo quotidiano
(A. Marino).
Ha esposto in mostre
personali, collettive e di gruppo ed è stato invitato a rassegne in Italia e
all’estero, tra le più recenti segnaliamo: 2013, Mistero buffo (a cura di Roberto Lacarbonara),
Galleria Formaquattro, Bari; Il giardino segreto (a cura di Lia De Venere)
Complesso di Santa Scolastica, Bari; 2012, Overture (a cura di Roberto Lacarbonara,
Antonio Frugis, Nicola Zito), Fondazione Museo Pino Pascali, Polignano a Mare;
2011, Padiglione Italia-Puglia, 54° Biennale di Venezia (a cura di Vittorio Sgarbi), Convento
Teatini, Lecce; 2008, ArtFirst, Bologna; Artifacts, Mirafiori Galerie, Torino;
Arrivi e Partenze, Mole Vanvitelliana, Ancona; 2007, Excess & Emptiness - The Flat
– Massimo Carasi, Milano; Scope Basel Scope NY, Stand The Flat, NY, USA;
ArtFirst, Arte Fiera Bologna; Children, Galleria Muratcentoventidue
Artecontemporanea, Bari; Group Show, Galerie Robert Dress, Hannover, Germany;
New Entries, Associazione Contemporaneamente, Milano ; Primo Scalo, Part
One, ex Convento di San Michele, Taranto; 2005, Kids, The Flat - Massimo
Carasi, Milano; 2004, Size S- Size L, La corte, Castello Svevo, Bari.
Sue opere sono presenti in
collezioni pubbliche e private, in Italia e all’estero.
GIULIO DE MITRI è nato a Taranto
nel 1952.
Ha compiuto studi artistici ed umanistici (Accademia di Belle Arti e
Università). È professore ordinario di prima fascia in Tecniche e
tecnologie delle arti visive contemporanee nell’Accademia di Belle Arti di
Catanzaro. Impegnato da anni in una ricerca sulla storia e sull’immaginario della
cultura mediterranea, protagonista italiano nella produzione di installazioni
luminose. De Mitri ha sempre lavorato su progetti in grado di generare estremo
coinvolgimento emotivo e spirituale nel fruitore, manifestando una sensibilità
e una leggerezza che spesso l’arte contemporanea ignora.
(R.Lacarbonara).
È invitato a numerose
esposizioni in Italia e all’estero, ha esposto in mostre personali, collettive
e di gruppo, tra le più recenti segnaliamo: Mediterranean dream, (a cura di M. Bignardi),
Pinacoteca Provinciale, Salerno; La seduzione del monocromo, (a cura di P. Aita
e B. Corà), Museo Civico dei Bretti e degli Enotri, Cosenza; Dante e le donne
del Paradiso, (a cura di G. Di Genova) Aurum, Sala D’Annunzio, Fondazione Casa
di Dante in Abruzzo, Pescara; Esperidi, Studio d’arte contemporanea “Pino
Casagrande”, Roma; Biennali di Venezia LIV e LII per gli eventi: Sguardo
contemporaneo (a cura di R. Branà e G. Caroppo),
Palazzo Bianchi Michiel
del Brusà e Padiglione Italia (a cura di V. Sgarbi); J. Beuys. Difesa della
natura (a cura di L. De Domizio Durini), Thetis, Arsenale Novissimo; XV Quadriennale
(a cura di C. Bertola, L. Canova, B. Corà. D. Lancioni, C. Spadoni), Palazzo
delle Esposizioni, Roma; 20 artisti per i 150° dell’Unità d’Italia, Palazzo Reale,
Torino; Intramoenia Extra Art (a cura di A. Bonito Oliva e G. Caroppo),
Castelli di Puglia; La luce come corpo (a cura di B. Corà), Galleria Peccolo, Livorno; XV e XIV
Biennale d’Arte Sacra Contemporanea, (a cura di G. Bacci, L. Caramel, E.
Crispolti, G. Di Genova), Museo Stauros d’Arte Sacra Contemporanea, San
Gabriele, Isola del Gran Sasso (Teramo); Videoart Yearbook 2007 e 2006 (a cura
di R. Barilli), Bologna; Environmental Art Festival Lakonia: arthumanature
topos 2007 (a cura di L. De Domizio Durini e A. d’Avossa), Sparta, Sellasia e
Geraki (Grecia).
Sue opere sono presenti in
musei, collezioni pubbliche e private, in Italia e all’estero
GIUSEPPE SPAGNULO è nato a
Grottaglie (Taranto) nel 1936.
Vive ed opera a Milano.
Nel 1959 si trasferisce a Milano per frequentare l’Accademia di Belle Arti di
Brera. Diventa assistente negli studi di Lucio Fontana e Arnaldo Pomodoro, entra in
contatto con Tancredi e Piero Manzoni, collabora con Nanni Valentini. Il viaggio
verso nord acquista per il giovane pugliese un carattere quasi
iniziatico; costituisce l’avvio del percorso “di andata” verso la ricerca della
propria identità artistica, politica, umana.
La sua ricerca riporta
l’osservatore a sensazioni primarie che la storia ha assegnato agli Elementi,
all’ineffabile tracotanza del ferro, alla carica evocativa del blocco di terra, e alla lotta
dell’artista per violarne l’autarchia minimale. Uno spazio materico,
stratificato grazie ad un gesto artistico energico e ben riconoscibile in
incisioni, rotture e scrostamenti (F.Gualdoni).
È stato professore di Scultura all’Accademia di Belle Arti di
Stoccarda (Germania).
Riceve il Premio Faenza
alla carriera e il Premio Internazionale per l’arredo urbano di Milano. Tra il 2007 e il 2009
realizza la Foresta d’Acciaio, monumento ai caduti di Nassirya a Roma, e la
Porta della luce per la Cattedrale di Santo Stefano a Prato.
È invitato a numerose
esposizioni in Italia e all’estero, ha esposto in mostre personali, collettive
e di gruppo, tra le quali segnaliamo: Biennali di Venezia (1972-1986); XI Quadriennale di Roma;
XII Biennale di Scultura di Carrara; Giuseppe Spagnulo-Sole rosso sole nero,
Antonella Cattani Contemporary Art, Bolzano; Percorsi nella scultura italiana,
Fondazione Ado Furlan, Spilimbergo (Pn); Giuseppe Spagnulo. Il respiro del
fuoco, Galleria 2000 & Novecento, Reggio Emilia; Il giardino segreto, Complesso di
Santa Scolastica, Bari; mostra personale Galleria Carzaniga, Basilea.
Sue opere sono presenti in
musei, collezioni pubbliche e private, in Italia e all’estero.
Il pensiero del sacro
attraversa l’opera d’arte contemporanea attraverso atti di veemente, ostinata
“sacrificazione”. Rimettere la realtà al sacro e al contempo recidere l’umano
daldivino attraverso un atto
sacrificale, ad una prima osservazione sembra riportare alla mente le forme
iconoclaste e le manifestazioni di insidiosa blasfemia realizzate da numerosi
artisti che operano nel
nostro tempo. Tuttavia questo “sacrificio” che intendiamo inseguire in
occasione della mostra “Sulle tracce del Sacro” appartiene ad una differente e
più profonda autenticità
ovvero a un radicale confronto tra il Soggetto e la Trascendenza al di fuori di
ogni “pro-vocazione” linguistica.
È ancora possibile parlare
di arte sacra? In quali termini e funzioni?
La ragione di adottare un
tale paradigma per illustrare le scelte dei tre artisti in mostra (non certo
con l’ambizione di una rappresentatività di “categoria”, bensì con compiuti riferimenti agli universi
simbolici implicati) stà nella natura fortemente “antimessianica” del rapporto
tra umano e divino. L’artista insomma sembra testimoniare a più riprese l’impossibilità di una
testimonianza, un cedimento della parola o un’usura del linguaggio. Operando
all’interno di una concezione plotiniana, riferita alla teologia negativa, De Gaetano, De Mitri e
Spagnulo esibiscono il sacrificio di dio stesso: una vera e propria sottrazione
del dio dal reale al fine di riattualizzarne l’avvento.
Prima di avvicinarci ai
singoli lavori presentati in mostra (nelle tre teche di cristallo che accolgono
circolarmente lo sguardo e che depositano l’opera come “reliqua-resto” di una traccia che – stando
all’allegoria religiosa – conduce ben oltre il confinamento del corpo-opera), è
opportuno soffermarsi sull’operazione complessiva qui condotta, a pochi passi dalle tele settecentesche,
dai paramenti sacri e dai documenti religiosi ospitati dal Museo Diocesano di
Taranto. Si tratta di una proposta che ragiona, per molti versi, mutuando simbolismi e citazioni
della classicità figurativa ma evidenziando il profondo “svuotamento” dei
termini espressivi.
Ogni opera infatti allude
ad una sorta di messianicità spoglia, indigente, affidata a una debole promessa
- non per questo meno esigente, meno pressante o urgente – di un “messianismo” desolante.
Tracce del sacro, dunque, che si perdono nella stessa direzione in cui
conducono: non v’è null’altro che l’opera oltre l’opera, alcuna ierofania,
alcuna manifestazione del dio.
Tuttavia è esattamente questa assenza di presupposti, questa
fede-non-necessitata a rendere possibile l’attesa, l’aspettativa, la sacralità
come spazio sacro, assoluto, che impone
rispettosa osservanza. Questa attesa di un messia minuscolo ed impersonale è
paradossalmente ancora più (pre)potente del Verbo e della Imago sacra di arte antica: essa è
“semplicemente” attesa, kenosis, svuotamento dello spazio a favore di un
alterità assoluta, mai narrata originale, straniera. “L’arrivante deve essere assolutamente altro, un
altro che mi attendo di non attendere, che non attendo, la cui attesa è fatta
di una non-attesa”1. Questo sacro sacrificante che penetra il nostro tempo è esattamente un termine che
non salva, non edifica bensì dimora nell’angoscia del non-dicibile, di uno
sbarramento del Verbo.
Le opere
L’opera di Cristiano De
Gaetano è una maschera mortuaria che dice terribilmente il peso del suo stesso
calco, del suo negativo. Laddove in passato la maschera mortuaria riferiva l’impressione
diretta del volto del defunto attraverso il posizionamento dell’argilla sulla
faccia prima del rito funebre, l’opera inquietante del giovane artista
tarantino scomparso nel 2013 è una
radicalizzazione dell’inversione simbolica della rappresentazione. Non più
opera d’arte come consacrazione memoriale del corpo all’eterno, bensì opera come manifestazione
del transeunte al vivente, figurazione ungarettiana di una vita che sconta,
sulla propria pelle, la fine, il morire. La scultura di De Gaetano è un gesto plastico: plasma il volto
con rapidi accenni, consegna la terracotta smaltata di bianco alla cottura
senza insistere sul lavorìo figurativo bensì raffermando, nell’opera, la
precarietà del gesto, della creazione
stessa. Persino l’atto dell’artista è un rito sacrificale: più volte De Gaetano
ha operato sulla propria effigie (sia in pittura che in scultura) attraverso
una rappresentazione
sepolcrale.
Va detto, inoltre, che la
stessa presenza di Cristiano in questa mostra, ad un anno dalla scomparsa, è
per tutti un’occasione per dialettizzare l’intera sua arte e biografia, fatta
di slanci esistenzialisti e
di ironie compositive al limite dello scherno ossessivo (si pensi all’estremo
realismo dei ritratti in plastilina). Una presenza che racconta il sacro
attraverso la “dissacralità” ovvero la
sfrontata ricerca dell’escatologia nel quotidiano, nel vivere, anzi, nel
rischio di vivere.
Se De Gaetano esplora la
condizione corporale e carnale del soggetto di fronte al sacro, Giuseppe
Spagnulo ragiona sui termini della “Relazione”, delle facoltà dell’uomo di dire l’eterno e di
reificarne, nella scrittura come nell’opera d’arte, la sua presenza. Anche in
questo caso, tuttavia, si tratta di una impossibile testimonianza: il libro in
acciaio è la ferita nel linguaggio,
l’improvvisa apertura di una crepa nella continuità del reale, è pura
“estimità”. Secondo la suggestione del pensatore e psicanalista francese
Jacques Lacan, il pensiero stesso
dell’individuo è abitato da tale estimità ovvero da un’esteriorità opaca che
eccede ogni tentativo di padronanza e di trasparenza. Qui sono le profonde
scissioni della storia e del
soggetto, lacerazioni che si manifestano come sconfinamento dell’Uno oltre i
propri confini. L’orizzonte di finitezza a partire dal quale ogni alterità si
offre all’Uomo è immediatamente
scisso, si traduce in una frattura senza negoziazione giacché è il grande
“Libro” – la Scrittura, ovvero la possibilità di recare memoria – ad essere calcificato nel suo
squarcio e nella sua illeggibilità. Non solo quindi un messianesimo irrisolto e
silente ma anche intraducibile e irrappresentabile: la possibilità di dire il
sacro,oggi, è una possibilità
sterile, un sacrificio che ripropone se stesso quale totem della propria
indicibilità.
Vi è poi, in ultimo, un momento
espressivo di profonda rivelazione e lucida sintesi. È l’opera di Giulio De
Mitri, “Genesi”. La scultura ovoidale attesta la complessa simbologia di riferimento
dell’opera; la perfezione formale e la morfogenesi ancestrale della vita
riferiscono l’essenziale totalità che ogni cosa comprende e raduna. Vi sono
però due elementi di silenziosa
ambiguità con cui l’artista sembra voler confrontarsi nel concepimento di
questo intervento.
Il ricorso ad una
superficie lucida e specchiante ribalta subito l’esercizio spirituale di un
luogo concavo e totalizzante in una superficie convessa e spazializzante.
Nell’opera, difatti, ci si rispecchia,
nel suo azzurro abissale e astrale si conserva l’immagine di sé, di colui che
osserva, di colui che si avvicina al mistero della creazione e della vita. È
l’umano che – ancora una volta –
rende sacro il sacro, agisce per “sacrificare” e continuare la ricerca di sé
oltre se stesso.
Ulteriore metafora
dell’apertura simbolica dell’opera è costituita dalla presenza, in apice, di un
punto luminoso (un led azzurro). L’uovo nella teca risulta in questo modo opera universale e primitiva,
fondativa del sapere e della bellezza. Si tratta di un riferimento che
travalica la stessa tradizione culturale cristiana e accede alla mistica orientale: quando Brahma si racchiude
nell’Uovo del Mondo (Brahmanda), egli forma il germe primordiale della vita
cosmica, chiamato “Hiranyagarbha”, un nome che letteralmente significa “Germe d’oro”.
In un passo dei Rig Veda (il “Libro dei Versi”, uno dei quattro Veda), si
afferma in proposito: “In un’oscurità profonda, come abisso tenebroso senza luce, il Germe che dormiva
ancora nel suo involucro d’oro esplose, come unico essere, per il calore
ardente”.
Ecco dunque il compimento
della rivelazione. È esattamente la luce, materia inconsistente ma generativa,
immateriale ma rivelativa, a coniugare la forte enigmaticità dei lavori esposti. I materiali e le
icone così opportunamente offerte in reliquia all’osservatore cristallizzano
una luce che, se da un lato insegue l’oscuro del mistero per manifestare il proprio corpo, dall’altro
imprime di sé le superfici del visibile. La stessa luce che fuoriesce dall’uovo
primigenio di De Mitri, che dimora nel candore freddo degli smalti di De Gaetano e degli acciai di
Spagnulo. La stessa luce che sottrae il sacro all’altare e lo consegna alla
carne, all’umano e alla terra.
Roberto Lacarbonara
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