di Pierfranco Bruni
Per Charles Aznavour, nato a Parigi il 22 maggio 1924, ma di origini
armene, l’Armenia è stata un crocevia
di civiltà tra il tempo distante e le memorie.
I giochi della memoria nella vita degli uomini sono segni che lasciano
tracce di viaggio. Si perdono e si ricompongono e poi alla fine restano
frammenti. Frammenti di esistenza che intrecciano i sentieri delle parole e i
vuoti d’anima.
Noi
siamo gli eredi delle testimonianze già vissute. Testimonianze che continuano a
vivere e ad essere vive nel cerchio del tempo. Bisogna saperlo accettare questo
tempo: nelle sue agonie, nei suoi dolori, nei suoi sorrisi: “Devi saper
sorridere ancora,/quando il meglio se n’è andato/e resta solo il peggio” (Da
“Il faut savoir” di Charles Aznavour). Accettare. La consapevolezza del tempo
che è dentro di noi.
I destini non sono un documento. Sono la
voce di un mistero che accarezza i giorni e intrappola noi stessi nel
quotidiano. Viviamo per ciò che siamo, per ciò che ci portiamo dentro, per
tutto ciò che rappresentiamo e per un vissuto che si fa identità. Viviamo il presente proprio perché abbiamo
vissuto “i giorni di prima”. Già, i giorni di prima. Ma quali sono questi
giorni di prima? Tutto quello che abbiamo vissuto e che ritorna sotto forma di
passato che recita memoria. I giorni di prima sono la memoria.
Charles Aznavour, il poeta della musica,
il canzoniere della parola, il canto di Venezia, il dolore dell’amore tradito
(ed io tra di voi…), in un libro che è una recita racconta la sua vita, una
vita vissuta come palcoscenico. E affiorano identità (la sua appartenenza alla
cultura armena, le sue radici, le sue radici armene in una Parigi dai tramonti
assordanti), paesi, infanzie, viaggi. I ricordi, appunto, di una vita. Racconta
questo suo straordinario viaggio in un libro dal titolo: “I giorni di prima”. Sottotitolo emblematico: “Il mio palcoscenico, la mia vita” (edito da Rizzoli).
C’è una linea caratterizzante in questo
suo diario – percorso. Certamente il recupero di una identità ma accanto a
questo processo campeggia forte il desiderio di tradizione. Nel solco della
tradizione: potrebbe essere così definito questo ondeggiare di giorni e questa
ricostruzione che intreccia il personaggio e l’uomo. In fondo si tratta di un
intrecciare. La vita di un uomo come Aznavour è un intrecciare di percorsi.
D’altronde “I giorni di prima” sottolineano marcatamente questo desiderio di
affermazione identitaria.
La difesa della sua appartenenza (e mi
riferisco alla cultura armena e al suo ritrovare i codici simbolici delle
matrici originarie del suo essere) è un fissare orizzonti. Il poeta e il
cantante non sono al di fuori di questa dimensione. Così scrive: “Quando penso
a chi, avendo i genitori ancora in vita, non vizia i giorni della loro
vecchiaia, anzi, se ne sbarazza appena può, piazzandoli in una casa di riposo,
lo compiango per non aver saputo conservare in sé il ricordo dei momenti più
teneri, dei più difficili, quelli che si portano nel cuore per tutta la vita”.
Un messaggio che costituisce una dichiarazione di riappropriazione del senso di
una vita attraverso modelli esistenziali che consolidano un legame che solo il
ricordo può richiamare. Ovvero solo il tempo può percepire. O meglio solo nel
Tempo si può percepire il bisogno di non recidere gli sguardi
dell’appartenenza. Un tempo che è fatto di memoria consolidata.
I giorni di prima sono, appunto, i viaggi
in quel tempo che ci viene restituito come memoria consolidata. E in quel
racconto – diario ci sono incontri, esperienze, amori. Infatti si racconta con
le parole dello stesso Aznavour: “La mia infanzia,i miei debutti difficili, le
donne che hanno segnato la mia vita, i momenti più insoliti o drammatici. Una
vita in cui io sono in fondo solo uno dei protagonisti”. Ma uno dei temi
importanti di questo libro è il richiamo costante al suo destino di essere
armeno. Un vissuto che è storia e intreccio di civiltà, un vissuto che si
ripropone attraverso delle immagini singolari che dovrebbero offrire una
lettura a tutto tondo della storia e della diaspora di questo popolo. Aznavour
con molta pacatezza riflette sulla questione.
Così scrive: “L’Armenia è stata un
crocevia percorso dalle coorti di numerosi eserciti, da carovane sulla via
della seta, da genti di etnia, religione, lingua e colore diverso. Si è andata
gradualmente occidentalizzando in seguito all’adozione del cristianesimo come
religione di Stato, nel Terzo secolo dopo Cristo, e dopo aver insediato sul
trono un principe francese. Divenne una nazione divisa tra due modi di vivere,
quello dei suoi vicini e quello dei suoi alleati, all’epoca delle Crociate.
Così, io sono il figlio di quelle due culture. Proprio come il mio giovane
Paese sono stato invaso, attraversato e conquistato, ancora giovanissimo, da
vari stili di vita, subendo tutti gli influssi della mia terra d’origine, in
ambito sia musicale sia poetico, sia classico sia popolare: russo, ebreo,
gitano, arabo armeno e poi francese, spagnolo, americano…Quando mi chiedono
semi sento più armeno o più francese, c’è una sola risposta possibile: cento
per cento francese e cento per cento armeno. (…) Conoscere due lingue dalla
nascita e sentirne parlare due o tre altre ogni giorno è probabilmente uno dei
segreti per poter apprendere molto in fretta altre lingue e interessarsi ad
altre culture”.
Una dichiarazione che resta fondamentale
soprattutto in una temperie in cui le stesse culture sono integrazioni,
comprensione, consapevolezza. Aznavour, infatti, ci offre un medaglione di
tolleranza m ci proietta, tra l’altro, verso un modello di conoscenze che è
fatto di orizzonti che ci spingono, sempre più, verso il rispetto e
l’educazione al sentire e capire le testimonianze e le lacerazioni di popoli e
delle civiltà.
“I giorni di prima” sono quei giorni che
non ci sono più materialmente ma che continuano a vivere dentro di noi con
quella memoria che è dimensione dell’esistere. In una delle sue canzoni più
struggenti si recita: “Prima ancora di sorridere, abbandoniamo
l’infanzia;/prima ancora di sapere, la giovinezza fugge,/e sembra così corta da
lasciarci sbalorditi/che prima ancora di comprendere abbandoniamo
l’esistenza”(da “Sa jeunesse”). “Prima ancora…”, dunque. Un’espressione che ci
unisce al tempo del sempre o a quel sempre che vive nel tempo con i suoi
ricordi e con il suo presente.
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