di Angela
Lo Passo
Il
custode
Permettere alla memoria di vivere di vita propria non lascia altra
possibilità se non quella di desiderare il ritorno ad una condizione perduta.
Utilizzare la mancanza, l’assenza del passato come presente facilita al
contrario la reale possibilità del ritorno, non indifferente, non frutto di un
percorso circolare, ma disimmetrico al punto di partenza e ricco di risvolti
inaspettati.
L’ossimoro vitale
Non
sorprende allora che lo scrittore Pierfranco Bruni concentri tutto se stesso
nel recupero incessante e continuo della ricostruzione del proprio passato anzi
nella ricerca del senso che solo lo scorrere del tempo ha fatto diventare
passato.
Per
cui appare coerente e illuminante la definizione della sua dimensione di custode. Il custode in realtà conserva e
protegge ciò che non gli appartiene, a cui attribuisce però un valore, non
tanto legato all’oggetto in sé ma ai suoi risvolti storici, sociali, e
soprattutto simbolici. Infatti il tempo attutisce da un lato gli aspetti più
immediati, il significato denotativo, e accresce nel contempo il significato
connotativo, quello più segreto e misterioso che amplifica il letterale e lo
trasforma appunto in simbolico. Un processo ulteriore e più complesso è però
rappresentato dalla visione allegorica, che immette l’oggetto in un processo di
pensiero, lo collega ad altro, gli conferisce nuove possibilità
d’interpretazione, lo avvicina al metacognitivo, al di là dell’apparenza e al
di là dell’essenza, lo rende parola suono attributo senzasostantivo, sequenza di effetti senza causa. Il valore allora
non risiede nell’oggetto ma in chi lo custodisce: il custode diventa guida,
interprete dell’oggetto divenuto memoria, collegato all’insieme di eventi che
hanno cratterizzato il suo farsi vita.
Pierfranco Bruni è custode nel senso più universale, mediatore tra
l’esistenza e il tempo, tra ciò che è stato e ciò che rimane nelle cose, nelle
persone, ma anche in sé.
Il sé
del soggetto e il sé dell’oggetto a cui il legame della memoria conferisce una
prospettiva ed un’eterorealtà,
l’altro che scalpita, l’altro che resiste al gelo del tempo, l’altro che sfugge
all’analisi ed è già sintesi, l’altro che è in tutti ed in ognuno, più vero di
ciò che appare più eterno della volontà.
La
memoria del sacrificio
Quando il filo della memoria s’interrompe non basta la malinconia a mantenere un legame se pur fragile con il passato, occorre un atto più coraggioso, una presa di coscienza reale e profonda che possa sublimare l’assenza e questo non è solo appannaggio della sfera religiosa ma anche laica, dell’uomo come universale nel particolare e viceversa per cui è valido per tutti il riferimento ancestrale al simbolo, all’uomo che tenta il ritorno e che sa di poter perdere parte di sé nella piena consapevolezza che la conoscenza comporta anche dei rischi: “Ulisse/ si è ormai/ abituato/ al naufragio” dice Pierfranco Bruni, il fallimento è quindi connaturato con la natura umana che cerca in un simbolo più alto il senso della perdita e non solo un riferimento, poiché irraggiungibile e apparentemente indifferente: “I miei occhi versano/ singhiozzi/ e i Cieli restano immobili/ Cristo è un relitto/ lontano dal mio sgomento”.
Lo
sforzo di ritrovare il sacrificio
Il sacrificio è un traguardo, la meta del percorso, del viaggio che spesso Pierfranco Bruni cita e su cui si sofferma non come semplice metafora della vita, sarebbe banale affermarlo, ma come la ricostruzione della memoria, l’analisi salvifica del mistero, la passione del ritorno, anche se verso il silenzio: “Il paese è invecchiato/ tra i giorni/ e l’attesa/ è un’ombra/ raccolta/ nel guscio/ della sera”..”il paese/ è toccato/ da una nuova solitudine”…”si decompone/ il giorno/ e il paese/ vive/ l’ultima/ bugia”…”da qui/ misuro/ le distanze”. Il viaggio quindi è misura del tempo, non il contrario, esso ricompone scompone la memoria, ed anche se aleggia la paura che tutto ritorni al nulla, l’io si oppone eroicamente alla disgregazione e misura le distanze”Ho accettato/ l’attesa/ e ho raccolto/ nel cavo del cuore/ le notti/ e i nomi/ del mio viaggio”…”Raccolgo le ultime cose/ Il viaggio/ mi cerca”…Ma se il viaggio consuma il tempo e non dà spazio alla memoria allora il senso del vuoto, dell’inevitabileperdita non si trasforma in dolore ma in indifferenza e rende inutile il sacrificio: “Il viaggio/ non ha/ alcun ritorno/ l’ho capito/ quando tutto/ era stato/ già scommesso”. E’ il ritorno la chiave del senso, quando viene scaltramente rifiutata la partenza:”le partenze/ sono ore/ rubate…”
L’assenza/mancanza
del sacrificio
Il
sacrificio della memoria
L’aporia per cui il caldo può coesistere con il freddo, l’assenza con la
presenza, l’insé con il fuoridasé non
è una forzatura dei poeti, un modo originale per caratterizzarsi come
interpreti del diverso, dell’eccentrico, ma è un processo mentale proficuo e
logico che connette più piani e li pone sullo stesso livello. Infatti la
perfezione non risiede nell’equilibrio stabile (noi diremmo statico), che non
genera cambiamento, ma nell’equilibrio instabile (noi diremmo dinamico),
effetto del movimento che genera altro movimento.
Questo vivace e vivificante incontro/scontro degli opposti, l’ossimoro vitale, è la base del processo
della memoria che il custode della distanza
attua nel presente, rimanendo protagonista del passato e non divenendone
vittima, come lo stesso titolo della raccolta, Fuoco di lune, scrigno del suo vissuto, chiarisce, ma non
determina.
In
realtà tutto coesiste e si sovrappone al tentativo di frenare la malinconia
della lontananza. “Ogni gesto ha una/ memoria”, ricorda lo scrittore, ma “Gesti
inconsueti/ seppelliscono memorie”: ogni atto conserva in sé altri atti, altre
situazioni in cui il tempo si perpetua e che non si annulla nella ripetitività,
ma al contrario si amplifica. La malinconia sta nel desiderio che ciò
riavvenga, che si riproponga la magia della memoria, che tutto riprenda vita.
“Non
sappiamo più/ se fingere/ o barattare/ le ore/ oppure/ custodire/ il pianto/
che ci resta/ o l’attesa/ del presente”.
Quando il filo della memoria s’interrompe non basta la malinconia a mantenere un legame se pur fragile con il passato, occorre un atto più coraggioso, una presa di coscienza reale e profonda che possa sublimare l’assenza e questo non è solo appannaggio della sfera religiosa ma anche laica, dell’uomo come universale nel particolare e viceversa per cui è valido per tutti il riferimento ancestrale al simbolo, all’uomo che tenta il ritorno e che sa di poter perdere parte di sé nella piena consapevolezza che la conoscenza comporta anche dei rischi: “Ulisse/ si è ormai/ abituato/ al naufragio” dice Pierfranco Bruni, il fallimento è quindi connaturato con la natura umana che cerca in un simbolo più alto il senso della perdita e non solo un riferimento, poiché irraggiungibile e apparentemente indifferente: “I miei occhi versano/ singhiozzi/ e i Cieli restano immobili/ Cristo è un relitto/ lontano dal mio sgomento”.
Il
sacrificio può apparire inutile, la sofferenza una punizione e il rimpianto non
si carica che del senso del vuoto: “Le lune del mio Calvario/ piangono i
giorni” e il poeta dice ancora in un altro passaggio: “Il mio vecchio Cristo/
urta/ i tentacoli della morte” .
Perché il poeta è smarrito, perché non ritrova il senso del suo
sacrificio, dell’assenza, dell’abbandono di un passato non rivissuto nel
presente, di una possibile anomalia temporale che non gli restituisce il dono
della memoria? Il sacrificio non è giunto al suo culmine, la sofferenza è fine
a se stessa e non permette la sublimazione. Perché tutto si ricomponga
occorrerebbe un salto verso l’infinito, verso la vera assenza che rilascia
all’anima la possibilità di trovare la strada senza condizionamenti, nella pura
scoperta dell’autenticità: “Dammi/ Signore/ il coraggio/
d’incontrarmi”…”Signore/ parlami ancora/ del Tuo viaggio/ Ti ascolterò/ Sei la
luce/ e la speranza/ in Te/ c’è il sogno”. Non è un vago desiderio di pace, non
è una sterile ricerca di appagamento ma un ritrovato sogno dopo la sublimazione
del sacrificio. Da qui l’identità con il vecchio
Cristo, il Cristo della memoria.
Il sacrificio è un traguardo, la meta del percorso, del viaggio che spesso Pierfranco Bruni cita e su cui si sofferma non come semplice metafora della vita, sarebbe banale affermarlo, ma come la ricostruzione della memoria, l’analisi salvifica del mistero, la passione del ritorno, anche se verso il silenzio: “Il paese è invecchiato/ tra i giorni/ e l’attesa/ è un’ombra/ raccolta/ nel guscio/ della sera”..”il paese/ è toccato/ da una nuova solitudine”…”si decompone/ il giorno/ e il paese/ vive/ l’ultima/ bugia”…”da qui/ misuro/ le distanze”. Il viaggio quindi è misura del tempo, non il contrario, esso ricompone scompone la memoria, ed anche se aleggia la paura che tutto ritorni al nulla, l’io si oppone eroicamente alla disgregazione e misura le distanze”Ho accettato/ l’attesa/ e ho raccolto/ nel cavo del cuore/ le notti/ e i nomi/ del mio viaggio”…”Raccolgo le ultime cose/ Il viaggio/ mi cerca”…Ma se il viaggio consuma il tempo e non dà spazio alla memoria allora il senso del vuoto, dell’inevitabileperdita non si trasforma in dolore ma in indifferenza e rende inutile il sacrificio: “Il viaggio/ non ha/ alcun ritorno/ l’ho capito/ quando tutto/ era stato/ già scommesso”. E’ il ritorno la chiave del senso, quando viene scaltramente rifiutata la partenza:”le partenze/ sono ore/ rubate…”
Il
ritorno non comporta una somma delle cose perdute, di ciò che si è lasciato e
non si è ritrovato, né procura solo una sorta di raccoglimento che rinchiude l’io nella sterile prigione della
malinconia, è al contrario un bisogno di raccolta,
di raccattare ciò che è sfuggito al rimpianto, che è rimasto autenticamente
fedele al ricordo, sottraendosi alla falce plumbea del tempo: “chiudo il gioco/
delle malinconie/ ricostruendo/ ricordi senza
senso”, per cui il poeta aggiunge: ”Le mie memorie/ restano/ l’ipotesi
peggiore”. Senza la ricostruzione del sacrificio non può esserci la
sublimazione della sofferenza.
La
lontananza priva di memoria provoca
l’assenza di malinconia: “Questo enorme silenzio/ mi trova lontano/ ho
voglia di una malinconia rubata” .
Il ritorno non cancella il senso di
smarrimento senza che alla base non ci sia uno sforzo titanico del poeta ad
affrontare il tempo, a convertire il senso di solitudine nella dimensione della
ricerca. “Vado lontano/ sulla corda della luna/ a raccogliere/ gocce di tempo/
La mia solitudine/ è un gesto antico”.
Nell’immagine
onnipresente della luna sembra riflettersi il richiamo antico della poesia
greca, riscoperta da Leopardi, al cuore degli uomini quando si dava alla
solitudine il valore della certezza, dell’uomo che nasceemuore da solo: “La solitudine/ non è la nebbia del giorno/ E’
la certezza/ di essere/ tutti/ distanti”.
Nella
poesia di Pierfranco Bruni la luna non solo partecipa, ma è l’archetipo della
raccolta della memoria, della rinuncia alla rassegnazione nella ricostruzione
del sacrificio: “la luna mi ricopre di gesti/ e il vento di crepuscoli e
memorie”. Tutto è racchiuso nel bisogno di riappropriarsi del tempo, anche se
breve e fuggevole: “Il tempo ormai/ cammina sul palmo della mano”.
Il
binomio solitudine/spazio e silenzio/tempo rinsalda il legame con il valore
della memoria, che riporta ancora una volta un’eco leopardiana.
Ora è
il momento giusto per riconciliarsi con le ore perdute dei gesti sfuggiti alla
memoria, del senso che riapre la possibilità di qualificare il ritorno: il
sacrificio.
Infatti se “Nel tempo –peggiore-/ ho
assistito/ all’impeto/ delle sfide” ora è il tempo migliore per emettere un
grido liberatorio: “E’ valsa la pena partire/ Quando si ritorna/ ci si
ritrova”.
La
fuga è finita ed anche l’isola dei ricordi non è più così lontana ed ammantata
di solitudine, se questa è presente lo è in vista della scoperta che
qualcos’altro vive oltre la sponda dei desideri perduti, oltre l’assenza: “Se
dovessimo perdere le ragioni del viaggio non saremo più capaci di tornare” e “
Il viaggio/ ha una sua storia”. Diventa chiara la percezione possibile del
sacrificio ultimo, quello della memoria: se fosse possibile impedire la
dispersione del tempo, anche le età passate, il senso delle cose perdute
sarebbero rintracciabili nel presente senza la prospettiva malinconica e
funerea del passato.
Uccidere il ricordo, sacrificare la memoria costituisce l’atto ultimo
per dare spazio alla vita del cuore,
all’anima antica dell’uomo che rispetta il tempo e non ne ha paura. Il tempo
non è più una dimensione ma una percezione legata all’attimo, se solo si
distoglie lo sguardo e i volti riscoprono la bellezza dei gesti inaspettati, di
un ghigno tramutato in sorriso, dell’attesa divenuta presenza, del buio
squarciato dalla luce, la realtà riacquista il dono dell’eterno, del valore
dell’età e non della sua dispersione.
Ricomporre con la raccolta e uccidere il senso
del passato fatto di mancanza, di lontananza, di assenza.
Il
sacrificio della memoria non comporta però quello delle illusioni, il sogno
permane mentre la solitudine invecchia e perde la sua forza, che non permette
di andare al di là: il ritorno va oltre, oltre le tenebre della malinconia che
uccide il sogno, in questo viaggio che ha insegnato al poeta a diventare
custode prezioso della forte appartenenza al luogo.
La
sua esperienza è universale perchè simile ad altre in questa unica sinfonia di
voci che celebra così il sacrificio della memoria: “tutte le età/ un poco / si
somigliano/ si distinguono/ solo/ per la loro fantasia/ o/ per la loro /
tristezza/ tutte le età/ hanno memorie/ tutte le età/ si perdono/ lentamente/
fra gli spigoli/ della notte/ tutte/ le età/ si perdono/ e ci perdono”.
In
questo caso la perdita costituisce prorio quel sacrificio della memoria che
permette alla vita di vincere, alla fine.
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