Quando Ernest Hemingway aveva la mia età incontrò la fine. Di là
dalla letteratura c’è la solitudine e la parola è il destino di morte
di Pierfranco Bruni
Lo scrittore, il più delle volte, è una maschera. Una maschera tragica come qualcuno direbbe. Una maschera ironica. Una maschera che maschera l’indefinibile o l’inverosimile ma dietro ognuna di queste maschere ci sono le debolezze, le angosce, il “logorio” dell’uomo che affronta la tragedia del vivere.
Quando Ernest Hemingway si uccise aveva
la mia età. Ernest è nella mia vita da anni antichi. Quel “vecchio” il “mare” che lessi in quegli anni del liceo ora è diventato il
libro del destino. Gli addii, le solitudini, la consapevolezza che la morte è
nella vita. Sono i viaggi che hanno accomunato la mia scrittura a quella di
Ernest. Sono passati anni dal giorno in cui lessi quelle pagine. Raccontando
Ernest racconterei il mio rapporto con la sua “storia”…
Gli
addii sono ciò che non capì Moravia. La solitudine e la morte sono i percorsi
mai compresi dal vuoto letterario di Calvino e sempre catturati da Pavese.
Ernest non è lo scrittore della leggerezza. È lo scrittore del labirinto
soprattutto con il tocco della campana. Se si dovesse raccontare Ernest
Hemingway, in un rapporto tra vita e letteratura, non basterebbe un solo
romanzo di quelli che sono stati pubblicati in vita.
Romanzi
che, a volte, richiamano il “diario” nel senso delle annotazioni del suo
essere, del suo sentire e del suo vivere che si trasformano in immagini
narranti. Ma che lasciano un tracciato in cui l’avventura, pur non essendo
parossistica, diventa deflagrante in termini letterari. Non solo romanzi. Anche
poesia. Le 88 poesie sono il segmento del legame morte vita e vita suicidio. Comunque
in Hemingway resta nevralgico il rapporto tra vita e letteratura. E non è
soltanto una chiave di lettura per comprendere, nei suoi virtuosismi e nei suoi
vizi o nei suoi malesseri, l’uomo. E’ piuttosto un intreccio caratteriale che
contraddistingue lo scrittore – uomo o l’uomo – scrittore.Hemingway sapeva
benissimo che senza scrittura il suo stesso quotidiano non aveva ragione di
esistere. Trasformava ogni passione (dall’amore al viaggio, dalla frenesia che
lo colpiva in quella incostante inquietudine alla morte) in avventura dello
scrivere. Pur tuttavia non si può considerare uno scrittore – diario ma uno
scrittore – avventura. Ma anche un avventuriero che aggrediva il tempo fino a
quando il tempo non lo aggredì.
Ebbene,
21 luglio 1899. Nasce nell’Illinois a Oak Park. La sua biografia lo fotografa
senza mezzi termini come un avventuriero dunque. Ma non uso questo termine in
funzione dispregiativa. Avventuriero qui sta come ricerca di un superamento che
va oltre i limiti del destino. Incocciò la vita convinto di superarla in ogni
aspetto, in ogni esplosione. Convinto di vincerla la vita attraverso
l’avventura che si trasformava però nella scrittura. Scrivere, come già si
diceva, era vivere. Ma scrivere era raccontare la vita nella storia e nel
tempo.
Indubbiamente
creò uno spaccato nella letteratura europea. Pavese definì il suo vivere
letteratura – vita e i suoi codici stilistici ed esistenziali come “monellesche
e impassibili birbanterie”. Anche se lo considerò un classico insieme ad altri
scrittori come Lee Masters, Anderson, Faulkner.
Sopravvalutato più del dovuto o meno: non è questo che interessa. Ma
Pavese, insieme a quella generazione compreso Vittorini, non ne fece un emblema
certamente. Parlò della letteratura americana come ricerca e come conoscenza di
un mondo altro rispetto alla
formazione letteraria europea e italiana tanto da fargli dire che: “Ci si
accorse, durante quegli anni di studio, che l’America non era un altro paese, un nuovo inizio della storia, ma soltanto il gigantesco teatro dove
con maggiore franchezza che altrove veniva recitato il dramma di tutti”.
Era l’America sul piano culturale e
storico che interessava più che i singoli scrittori anche se gli scrittori
erano poi parte integrante di un modello soprattutto di vita. Non mancarono
anche in quel clima le diffidenze, tanto che Italo Calvino il 13 novembre del
1954 su “Il Contemporaneo” dà una sfilzata di
fioretto e riferendosi a Hemingway sottolinea: “quella sua vita e
filosofia di vita di cruento turismo cominciò ad ispirarmi diffidenza e perfino
avversione e disgusto”.
Giornalista,
ideatore cinematografico, personaggio. Tre aspetti che si integrano. Perché
ideatore cinematografico? Molti dei suoi romanzi sono un apripista per
sceneggiature cinematografiche. Film che hanno segnato un particolare momento.
Film tratti dai suoi romanzi. Il suo
realismo non è magico ma ha sempre “i piedi per terra”. Ancora Italo Calvino
dopo quelle sottolineature aggiunge in tono più pacato: “Hemingway scrive a
secco, non sbava quasi mai, non gonfia, ha i piedi per terra”. Ma non lo capì,
perché Calvino non capì mai il senso del destino dello scrittore destino.
Pavese sì. Mentre Giansiro Ferrata nel 1956 in Il
romanzo del Novecento afferma: “Perseguì la nuda eloquenza delle cose, il
ritmo dei fatti, il rapporto con un sistema di cose carico di realtà quotidiane
ma intime, organiche nella propria naturalezza: uno stile positivo, a suo modo”.
Il contatto con la realtà, per Hemingway, diventa
indispensabile. Lo si avverte sin dai primi scritti. In quel romanzo, primo
riferimento, del 1926 Fiesta e poi in
Addio alle armi del 1929 passando per
i racconti Uomini senza donne del
1927 e Torrenti di primavera del
1926. I testi di ricerca, dove si tenta una sperimentazioni stilistica ma anche
di intreccio di contenuti, restano i primi lavori del 1923 e del 1954: Tre racconti e dieci poesie e Nel nostro tempo. Un itinerario che,
comunque, finalizza già lo scrittore che ha bisogno dell’avventura per creare
storia e personaggi. I quali personaggi costituiscono la coscienza della storia
che si veste appunto di realismo.
In Hemingway la letteratura è nel dialogato che è
parola. La parola è il parlato dei personaggi. Hemingway “Fascia le cose con un
ripetuto contatto verbale”. Ritorna così il rapporto tra linguaggio e realtà.
Ovvero tra la cronaca dei fatti, che si traduce in piccole storie e grandi
passioni, e la capacità del linguaggio nell’offerta della comunicazione.
Quel “contatto verbale” di cui parla Mario Praz è un
contatto con le cose del linguaggio il cui linguaggio è la comunicazione dei
personaggi. Appunto Mario Praz su “La Stampa” del giugno del 1929, eravamo ai
primi romanzi, scrive: “Il suo stile aderisce ai contorni delle cose con una
fermezza che ha dell’impersonale. Se c’è uno stile obiettivo è il suo”. E prima
aveva cesellato: “… si limita a ripetere i discorsi quasi seccamente, a
delineare gli aspetti circostanti col minimo di parole possibile”.
Gli anni Trenta sono anni ricchi di impressionanti
avventure alle quali si intrecciano i desideri della scrittura. Il giornalista
e lo scrittore sembrano comunicare.
Molti soggetti giornalistici si decodificano nel narrato
dei suoi racconti e dei suoi
romanzi. Nel romanzo c’è dunque la vita. La vita con la
sua allegria e soprattutto con i suoi rischi. Ma scrivere e vivere sono
costantemente un rischio. La vita va incontro alla morte. La scrittura va
incontro al dissolvimento.
D’altronde un “avventuriero” come Hemingway non può aver
timore dei rischi che gli si presentano. Ma la morte dell’uomo è come se fosse
causata dal dissolvimento dello scrittore. Il non poter scrivere significa il
non poter comunicare. E il non poter comunicare vuol dire il non saper
esprimere emozioni, il non saper catturare passioni, il non poter amare con
l’intensità degli amori.
Lo scrittore che calava nella scrittura tutta la sua
tensione, questa tensione costituiva un gioco infinito tra il dare e l’avere.
Il dare e l’avere della parola – vita era la vita che assorbiva la tentazione
dell’eros che il raccontare sprigiona. Quel raccontare in cui l’avventura non
conosce limiti e orizzonti.
Si pensi a Morte
nel pomeriggio del 1932. Il soggetto di questo libro è la corrida.
Significa il pericolo, il rischiare la vita, la morte, le tentazioni del vivere
e del morire. E sono sempre tentazioni di passione. Si pensi ai racconti del
1933 Chi vince non prende nulla.
Testi che non vanno segnalati certamente per la loro importanza letteraria ma
per la loro fase sperimentale anche se nel testo del 1932 questo frammisto tra
vita – rischio e morte sono ben collegate con la metafora – realtà della
corrida.
Uno scrittore che usa il linguaggio per denudarsi
completamente e in questi anni insieme al suo impegno pubblicistico intreccia
il realismo letterario ad una denuncia della società americana. Va ricordato, a
tal proposito, il volume Avere e non avere pubblicato nel 1937. L’anno
seguente vede la luce la sua opera teatrale, la sola che abbia composto, dal
titolo: La quinta colonna. Il romanzo
che lo fa popolare e lo porta al successo è indubbiamente Per chi suona la campana edito nel 1939. La Spagna, la guerra
civile, la rivoluzione. Ma non è un romanzo a tesi. E’ piuttosto un romanzo di
avventura con tutte le categorie di quei romanzi di avventura nei quali il
fascino dell’impresa è più esaltante di qualsiasi altra condizione esistenziale
stessa.
I quarantanove
racconti sono
una sintesi di una dimensione creativa che raccoglie gli arcobaleni dello
scrivere raccontando la vita, le storie e i personaggi. Questo testo racchiude
i racconti pubblicati dal 1921 al 1938. Un’altra testimonianza che va letta
come una perenne forma di sperimentazione. Un andare alla ricerca delle parole
per mettere su le storie che sono già dentro il cuore. O un andare alla ricerca
delle storie per raccordare le parole?
Hemingway stesso nella Prefazione a questo testo del
1938 parlando dello “strumento con cui scrivi” dirà: “… io preferisco averlo
storto e spuntato, e sapere che ho dovuto affilarlo di nuovo sulla mola e
ridargli la forma a martellate e renderlo tagliente con la pietra, e sapere che
avevo qualcosa da scrivere, piuttosto che averlo lucido e splendente e non
avere niente da dire, o lustro e ben oliato nel ripostiglio, ma in disuso”. Un
passaggio che diventa fondamentale sia sul versante stilistico che su quello
della condizione tematica. La voglia di scrivere era per Hemingway come la voglia
di possedere, di amare, di vivere.
Dall’avventura all’intimismo. C’è una analisi di
Nemo D’Agostino apparsa nel 1956 su “Belfagor”, quando aveva già pubblicato Di là dal fiume e tra gli alberi nel
1950 e nel 1952 Il vecchio e il mare,
che dovrebbe far meditare. In questo stesso anno ottiene il premio Pulitzer e
due anni dopo gli viene conferito il Nobel. Due testi, questi ultimi, che
appartengono alla fase finale della sua stagione creativa ma che si spostano
dai precedenti periodi.
Ma cosa dice D’Agostino? Così scrive: “Qualcosa ad
un certo momento è accaduto ad Hemingway. La vita o il successo o il suo
logorio interno e forse la caccia ai simboli che la critica muoveva intorno a
lui hanno cambiato Hemingway in peggio”.
D’Agostino catechizza l’opera dello scrittore
americano in due periodi. “Il primo ebbe il coraggio di affrontare il nulla, il
che non sempre è un atteggiamento negativo. Il secondo, quello che ha scritto Morte nel pomeriggio e il resto
(compreso il molto sopravvalutato Il
vecchio e il mare) ha voluto celebrare l’affermazione. Come l’uomo stanco
di affrontare un abisso si è ritirato nel mondo alquanto scontato del
misticismo estetico e dei miti nebbiosi, per celebrarvi la bellezza dell’osso
bianco nella coscia lacerata del torero, il moderno eroismo della disperazione,
l’umanitarismo mistico della bellezza dell’amore e della morte”. Una
sollevazione di natura critico – letteraria che va ad incidere su tutta l’opera
di Hemingway. Certo, ci sono situazioni e condizioni letterarie che purtroppo
si lasciano pesare proprio in riferimento a quel rapporto a cui si accennava:
letteratura – vita. Ma ciò non dovrebbe toccare la sfera puramente letteraria.
Ci
sono romanzi che sono stati, certamente, sopravvalutati ma ce ne sono altri che
andrebbero chiaramente riletti magari con un metro di comparazione critica che
esula da impostazioni manichee. Hemingway, nel bene e nel male, resta sì un
personaggio ma resta sostanzialmente uno scrittore.Uno scrittore che, volente o
nolente, si è costantemente confrontato con la vita ma soprattutto con la
morte. Il suo suicidio, se lo si va a valutare sia sul piano letterario che
esistenziale, è il suicidio di un personaggio che sapeva di indossare una
maschera.
Lo scrittore, il
più delle volte, è una maschera. Una maschera tragica come qualcuno
direbbe. Una maschera ironica. Una maschera che maschera l’indefinibile o
l’inverosimile ma dietro ognuna di queste maschere ci dono le debolezze, le
angosce, il “logorio” dell’uomo che affronta la tragedia del vivere.
La sua maschera era la morte. Una morte che nascondeva ma
che poi ha fatto esplodere all’improvviso in un giorno di luglio del 1961. Si
suicida e il suicidio, per Hemingway, sembra essere l’estremo rimedio per
difendere il personaggio e difendendo il personaggio cerca di salvare lo
scrittore.
Tra i suoi scritti postumi vanno ricordati Festa mobile e Isole nella corrente. Di questi giorni è Vero all’alba. Di questi tre libri quello che ha una maggiore
venatura poetica è Festa mobile
pubblicato nel 1964. Lo considero, nonostante la incompiutezza, un romanzo
fresco. Un romanzo che lascia trasparire un’agilità di pensiero, un ricordare
che si fa sogno, un recuperare, anche attraverso forme simboliche. Continua ad
accompagnarmi. La sua scrittura. Il suo vecchio che ha bisogno del mare ma
anche le sue poesie. Continua ad essere in me. La sua solitudine, la sua morte,
la sua dissolvenza.
Una memoria che non è quella giornalistica ma
profondamente letteraria. Si respira la Parigi dei bei tempi quando quei tempi
erano vissuti con la giovinezza e la vita era una festa. Appunto una festa
mobile. Quella festa fatta di incontri, di bevute, di donne, di
trasgressioni.Parigi e giovinezza sono una meteora nel cielo dello scrittore.
Che, dico nel cielo dell’uomo – scrittore. Ecco perché tutto è una festa. Ed
essendo una festa, la vita, è mobile. Nonostante tutto è il romanzo scritto da
uno scrittore che sa che il mestiere dello scrivere è anche saper ricordare e
afferrare il ricordo per imporlo come linguaggio.
In una intervista ad Hemingway il cui tema dominante
è l’arte di scrivere e narrare, curata da George Plimpton (ora in una nuova
edizione de I quarantanove racconti, editi da Einaudi la quale
rimanda alla fonte originaria) si legge: “Con quel che ci è accaduto, quel che
succede, quel che conosciamo e quel che non possiamo conoscere, inventiamo un
qualcosa che non è una semplice rappresentazione ma una creazione totalmente
nuova e più reale di qualsiasi cosa reale ed esistente, e se la rendiamo viva e
il risultato è buono, diventa immortale. Ecco perché ci ritroviamo a scrivere,
senza altre ragioni di cui siamo consapevoli. Ma chissà quanti altri motivi ci
sono e non lo sappiamo”.
Scrivere è raccogliere, dunque, la fantasia che non
ha motivazioni ma che diventa mistero e forse destino. Ancora la passione, la
tentazione, la sensazione, l’eros, l’andare e tornare: da Cuba alla Spagna, da
Venezia a Parigi. Un viaggio nella letteratura dei luoghi delle metafore e dei
personaggi che si raccontano da soli.
Non so se sia stato un “grande” scrittore.
Hemingway. Forse per alcuni libri non lo è stato. Per altri, forse sì. Ma
smettiamola di riproporre i soliti scritti. Quelli cosiddetti famosi e
popolari. Rileggiamo, invece, Festa
mobile. Chissà se ripartendo da questo incompiuto si potranno afferrare
quelle realtà – memoria che sono i segreti di quella festa che è appunto la
vita e che Hemingway ha trasformato in avventura. L’avventura è il cerchio del
destino. Come in Pavese. Come in Antonia Pozzi, come in quel viaggio di una
letteratura che non svela la descrizione, ma si radica nel senso di morte. La
letteratura porta il sottosuolo nella propria anima e soltanto il Cristo in
Croce può dare voce. Non è riuscito a schiodarsi quel Cristo per Ernest. O la
Pietra è rimasta bloccata sulla ferita della roccia. Io ed Ernest. Forse un
romanzo. Ma tutto può essere il nulla del romanzo quando la solitudine incontra
la morte sul fiume o sul mare e quando si va alla ricerca dei porti i porti
sono viaggi o sono luoghi in partenza. Così per Ernest.
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