di Pierfranco Bruni
Cesare Pavese moriva 65 anni fa. Uno scrittore che ha attraversato le malinconie dell’amore in un vissuto di esistenze e di parole. Lo scrittore che non ha mai creduto nel realismo e non credendoci non lo ha mai accettato. Uno scrittore osteggiato e temuto perché la sua poesia e il suo romanzo hanno fatto scuola, ovvero hanno creato degli indirizzi letterari, estetici e linguistici.
Molto diversi dagli altri scrittori della sua generazione. Ha lasciato allievi che lo hanno tradito. Succede così ai veri maestri. Infatti Cesare fu un maestro.
Da “Lavorare stanca” a “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi”, da “Paesi tuoi” a “La luna e i falò” la griglia simbolica è un percorso di archetipi e di miti sino a toccare la bellezza e la morte dei “Dialoghi con Leucò”. Un libro unico nel contesto del Novecento che la critica italiana non ha mai capito e tanto meno hanno compreso i compilatori delle antologie scolastiche e tanto meno i docenti che si formano su tali antologie.
Pavese resta un riferimento. Quando si avrà l’intelligenza critica di capire ciò si potrà discutere del rapporto tra letteratura e vita. Il Novecento letterario, nella sua complessità, si apre con D’Annunzio e si chiude con Pavese. Dopo resteranno gli allievi di D’Annunzio e gli allievi di Pavese. Gli altri sono nel cerchio degli imitatori. Così in poesia: dopo Ungaretti e Cardarelli si naviga alla ricerca dei loro solchi.
Ho amato e studiato Pavese. È parte della mia vita. Molti libri ho dedicato a lui e non per mestiere, ma per un vissuto letterario e umano comune.
Il suo amore per l’americana Constance Dowling, l’attrice, è un capitolo tutto aperto, oltre la consolazione, per comprendere la vita e la morte di uno scrittore che visse la solitudine e si perse negli occhi della notte aspettando che dal mare giungesse Constance. Cosa si dissero Costance e Cesare?
Un immaginario dialogare danza nei miei pensieri.
Constance: "Roma è una città distante. Antica. Mi trovo sui gradini di Piazza di Spagna. Scende un gatto nero. Ci sono fiori. Garofani rossi. Sei il mio amore protezione, Cesare mio. Dovrò partire. Mi aspetta l'Oceano. Ritornerò per i tuoi dialoghi. Non affidarti a Leucò. Io sono la tua terra e il tuo mare. Sei la mia dispersione ma anche la mia disperazione. Sei il mio amore continente".
Cesare: "Il mio vizio assurdo? Con te è ritornato l'amore. Se tu andrai via le mie parole reciteranno nel canto e nel controcanto 'verrà la morte e avrà i tuoi occhi'. Se tu parti è destino. Tutto è destino. Non ritornerai. Ho capito da una parola che Doris ha sottolineato con ironia. Io vivo se tu continuerai a vivere in me e se io vivrò in te".
Constance: "Ma tu cosa sei? Sei la luna o i falò?".
Cesare: "Il mio romanzo finisce con te e anche la mia distrazione con te e tu in me".
Constance: "Ci sono state altre donne nella tua vita. Io sono l'Americana e il cinema. La tua donna dalla voce roca ha segnato il tuo cammino. E poi tutte le donne vissute nei tuoi romanzi sono realtà o sono l'avventura nel tuo mistero? Concia, Elena, Maria, Rosetta e ancora la tragedia di Santa? Posso credere alla fantasia senza la vita nel viaggio del tuo esistere?".
Cesare: "Non capisco. Faccio tutto per non capire. E tu fai tutto per non comprendere che uno scrittore si porta dentro l'inquieto esistere delle solitudini. Tu sei la donna immensità. Mia Costance. Io sono insieme la luna e il falò. Non fare confusioni. Non mi perdo per abitudine. La donna dalla voce roca è una storia antica. Gli anni dell'esilio, del confino e del ritorno. Ma tu sei altro. Sei la bellezza, sei il deciso, sei l'infinito o la fine. Leucò è il mito che celebra le parole di Tiresia. Non accolgo l'immortalità. E non raccolto incantesimi. Accompagnami in questi giorni. Tutta una vita passa o si ferma con te. Tu sei il fuocoe la vita e il trionfo della morte vive in me".
Constance: "Io sono il viso nero, l'inquietante che ti agita ma ti amo. Cesare mio, io porto il mare dentro di me e tu porti la terra. La terra e il mare possono dividersi?".
Cesare: "Non lo so. Sei la vita e la morte. Ti aspetto. amante mia. Tra città viaggio ma tra le parole mi troverai sempre. Non credere che le parole siano nulla. Non dimenticare. Tu sei tutto o nulla".
E poi venne la notte. La notte di “verrà la morte e avrà i tuoi occhi” che fece scendere Pavese nel “gorgo muto”. Uno scrittore inventa la fantasia, ma la fantasia ha bisogno della vita e la vita si intreccia sempre, per uno scrittore, tra la finzione e lo specchio. Si va oltre la maschera e anche oltre il teatro.
Con Pavese si ha il superamento pirandelliano perché non si è uno centomila e nessuno e neppure si rimane un personaggio alla ricerca di un autore.
Con Pavese siamo al tragico del trionfo della morte che si fa fuoco nella visione del notturno.
Insomma con Pavese siamo dentro quel viaggio dannunziano che è dionisiaco tra la vita, appunto, e la morte. Costance non è soltanto la donna del destino. È la metafora del viaggio chiuso che rompe il desiderio dell’attesa per dare un senso al finito.
Cesare aveva previsto ciò. Con “Dialogo con Leucò”, con Rosetta delle tre amiche e con lo scontro tra Concia ed Elena de “Il carcere”.
Constance è la chiusa di tutto. Una insistenza percettibile del fuoco dannunziano che diventa trionfo della morte, dunque. Non c’è umorismo sotto alcun velo, ma solo il tragico della consapevolezza. Persino della sua vita.
Tutto il resto, oltre i pettegolezzi, è nulla. Ma bisogna leggerlo Cesare Pavese non tanto e non solo per capire la sua scrittura e i suoi processi letterari, ma bisogna leggerlo anche per noi stessi.
Poi c’è l’esercizio. Ma appartiene ad altri scrittori.
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