Nel decennale della scomparsa di Sergio Endrigo
Portò la poesia nella canzone
di Pierfranco Bruni
Sergio Endrigo |
Siamo al decennale della morte di Sergio Endrigo. Era nato a Pola, il 15 giugno 1933. Muore a Roma il 7 settembre 2005. Con Sergio Endrigo il richiamo è una voce che ci riporta ad un legame tra poesia e melodia, poesia e canto, liricità e racconto. Un “canta – autore” che ha fatto scuola. Non si può disconoscere. Ha segnato dei percorsi fondamentali all’interno dei linguaggi musicali. Forse è quell’autore che ha trasportato, più degli altri, la canzone cosiddetta melodica nel testo contemplativo. Al di là degli autori “impegnati” che si formavano tra gli anni Cinquanta e Sessanta. Ma c’è da sottolineare che il suo linguaggio aveva sempre un battuto poetico. La poesia era vitale dentro la sua ricerca. Riusciva a coniugare la melodia dei toni e dei ritmi con la bellezza della parola.
Una forma estetica in una visione della parola che offriva immagini e storie. Una eleganza che solo a pochi è concessa. E’ proprio vero ciò che sostiene Franco Battiato, in una intervista, riferendosi appunto a Sergio Endrigo, un grande della musica italiana e della canzone d’autore: “Sergio Endrigo, dal mio punto di vista, incarna la figura dell’aristocratico – popolare. Mi rendo conto, aggiunge sempre Battiato, che può suonare come un ossimoro, ma voglio dire in realtà che si tratta di un compositore molto elegante e popolare insieme” (in Sergio Endrigo, “Quanto mi dai se mi sparo”, Stampa Alternativa, 2004). Un raccordo che pone in essere due definizione che, comunque, portano ad un unico modello che è quello del linguaggio che esprime una profonda tensione espressiva che è dettata proprio da quei processi poetici che, pur vivendo una loro musicalità intrinseca, incontrano, a loro volta, la musica.
Ebbene, Sergio Endrigo credo che vada collocato, parlo della sua proposta musicale e della parola, come un riferimento certo nel contesto dei cantautori italiani e costituisce un punto significativo sul piano di una rilettura e di una interpretazione testuale all’interno della temperie contemporanea. Molte sue canzoni sono dei veri e propri versi che si reggono in termini poetici ed hanno la sicurezza della poesia. Si tratta di uno di quei tasselli il cui rapporto tra musica e parola (ovvero tra poesia e canzone) resta fondamentale. Basti riconsiderare lo straordinario e struggente velo malinconico di “Aria di neve”. Canzone ripresa, appunto, proprio da Battiato per il suo “Fleurs 1”. O i versi di “Adesso sì”. O ancora la famosa “Io che amo solo te”. Insomma ci troviamo di fronte ad un autore che ha fatto del legame tempo – amore – malinconia un intreccio in cui l’espressione lirica è un canto che attraversa tutte le generazioni dei cantautori. Ma poi ancora “Vecchia balera”, “Via Broletto”, “La rosa bianca”, “Teresa” e gli altri testi scritti in tandem come “Canzone per te”.
Insomma con Endrigo entriamo nel cuore di quel viaggio tra la parola e la musica e non si sa dove comincia l’una e dove sosta l’altra. Una visione, in fondo, quasi onirica che distribuisce, d’altronde, immagini e sensazioni che proiettano fasci di emozioni. Siamo non all’immaginario della malinconia ma ad una malinconia che crea immagini. Così in “Aria di neve”: “Sopra le nuvole c’è il sereno/ma il nostro amore/non appartiene al cielo/noi siamo qui/tra le cose di tutti i giorni/di giorni e giorni grigi/Aria di neve sul tuo viso/Le mie parole/sono parole amare…”. La quotidianità che si fa tempo nei giorni che raccontano di un amore che segna la fine. E la recita è un intercalare di versi che recitano atti di nostalgia.
In Sergio Endrigo c’è tutta la nostalgia che si vive negli antichi canzonieri. L’eleganza e il popolare: diceva Battiato. Mi pare che sia un fatto significativo. La leggibilità immediata del testo con un linguaggio che ha non solo un marcata profondità ma uno stile che richiama forme di estetismo letterario puro. Così in “Adesso sì”: “Adesso sì/adesso che tu vai lontano/sono acqua chiara/le nostre lacrime…/E’ tardi/ per ritrovare le parole/che tanto volte/volevo dirti/e non ho trovato mai…”. Un altro inciso che si canta come se fosse una recita, anzi una nenia, anzi una litania nell’accordo mistico della parola musicata. Sferzante nella tensione del sentimento i versi di “Io che amo solo te”: “Io che amo solo te/mi fermerò e ti regalerò/quel che resta della mia gioventù”. Sferzante, certamente, perché all’interno di questo vissuto c’è il graffio dell’anima che graffia la vita e intavola un discorso con il tempo. L’amore e la gioventù. La gioventù come trasporto dei ricordi che disegnano una vita passata e vissuta. Il passato è il vissuto e l’amore è una griglia di sentieri lungo i quali si ancorano le emozioni.
Un autore che ha sempre regalato emozioni. Anche nel gioco della favola e dell’ironia. Voglio qui ricordare “Girotondo intorno al mondo”, il quale trattasi di un testo ricavato da una poesia di Paul Fort. Ecco come il leggere la canzone senza mai perdere di vista la parola dei poeti ha costituito un elemento non solo di comparazione ma piuttosto di integrazione. Il limite, se si vuole, tra i versi dei cantautori e dei poeti è, a volte, risibile. Nello stesso lavoro di Endrigo ci sono componenti liriche che ufficializzano proprio un parametro tra linguaggi. E questo parametro è dettato anche dalle forme e dai contenuti. Ancora una volta mi sembra interessante il connubio tra il popolare e l’elegante. Le forme, i contenuti e l’espressività che significa anche paesaggio musicale. Il fare i conti con il ritmo, con il battuto delle note, con la misura del verso. Sono caratteristiche di un linguaggio che non è usuale o casuale. Ma è il linguaggio vero dell’artista. E’ qui che i luoghi, i nomi, le rimembranze trovano un loro senso.
Endrigo resta un uomo di frontiera e come tale è un uomo che conosce la metafora dell’orizzonte e del confine ma è anche un uomo, lo testimoniano i suoi versi, che sa conservare il valore dei ricordi trasformandoli in memoria. Assonanze ma anche segmenti letterari che conducono ad uno spessore che ha valenze liriche. La canzone dal titolo: “1947” condensa i significati di una memoria in un luogo ma si tracciano i segni di un amore che dura nel tempo perché è un amore che esiste e resiste nel cuore. Sergio Endrigo rimane, chiaramente, un autore riferimento di una generazione di cantautori che ha sconfitto, non va dimenticato, il suicidio della poesia. I suoi testi non smettevano mai di confrontarsi con ciò che usiamo chiamare battuto lirico. Una dimensione che non si potrebbe definire che estetica. L’estetica di un linguaggio che trovava una sua ragione d’essere in un modello poetico tradizionale.
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