di Marilena Cavallo e Pierfranco Bruni
La parola, in Pirandello, è sempre linguaggio. Stiamo per celebrare gli 80 anni della morte di Luigi Pirandello e la lingua e il personaggio sono un incontro.
Il linguaggio del personaggio che si legge come destino. Il linguaggio che scava in un vocabolario di consistenze grammaticali. Il linguaggio che si lascia attraversare dalla storia e segna, emblematicamente, il tempo della scrittura.
C’è un’umanità che si fa scrittura. In questa umanità la lingua pirandelliana si confronta con la Oggettività e con la Soggettività in un processo di osmosi tra dialetto e lingua e, soprattutto, tra parlato e scritto.
In Pirandello anche la poesia si legge e si ascolta come una lingua parlata, intrecciando l’uso comune e il registro dialettale. Infatti, nel dialetto individuò sempre l’originalità di una lingua dialogante, appunto, tra dialetto e lingua. Le sue radici sono uno scavo nella metafora del sentimento del contrario.
La parola e tale sentimento creano, a loro volta, la condizione dell’uomo solo o la solitudine del personaggio, perché è in una visione di solitudine che lo scrittore recupera la sua eredità sia geografica che esistenziale. Nella metafora della condizione umana Pirandello vive la crisi del linguaggio che è la perdita e il recupero della parola – lingua.
Il Novecento è un secolo bizzarro e lo diventa ancora di più nel momento in cui la parola ritrova la sua metafisica a priori.
Pirandello è la grecità soffusa.
Le sue parole sono un testamento: “Io dunque son figlio del Caos; e non allegoricamente, ma in giusta realtà, perché sono nato in una nostra campagna, che trovasi presso ad un intricato bosco, denominato, in forma dialettale, Càvusu dagli abitanti di Girgenti… corruzione dialettale del genuino e antico vocabolo greco Xàos”.
Pirandello ha fatto della “corruzione dialettale” un linguaggio universale nel quale la metafora trionfa tra l’ironia, l’umorismo e la classicità.
Ci sono origini, radici, identità che non si perdono. Restano custoditi nel labirinto della memoria e ritornano, si ritrovano, rivivono come fantasmi e non sono fantasmi. Sono riferimenti. Anzi sono miti o archetipi che si individuano nella pronuncia di un tessuto territoriale che è una reale linea etnica.
Il mythos è poesia e diventa un romancero.
I simboli stringono la terra nella lingua. Così avviene, in Pirandello, a partire proprio dalla poesia che non solo è il nucleo di partenza della lingua intrecciata alla grecità e alla mediterraneità, ma è il nucleo della sintesi e delle relazioni tra la recita della parola e la teatralizzazione dei linguaggi in una nostalgia di voci che hanno il suono del mare.
In Pirandello il mare ha il suono di echi che fanno di Mal giocondo il destino di un uomo che si trasforma in destino del personaggio. Uno scavo che non è soltanto tematico (considerata la presenza del mare), ma si incentra in una questione che costantemente chiama in causa sempre la lingua.
Le parole (o la parola) pongono una situazione di crisi che si catalizza nella versione dei contrari. Ma in Pirandello l’essenzialità è l’estremo limite del possibile che ha bisogno dell’impossibile per reggersi.
L’impalcatura poetica è il sistema letterario di un poeta che pur abbandonando la sua terra vi rimane dentro, e quella sua terra viaggia con lui attraverso la lingua, il linguaggio e la parola. La terra viaggia attraverso la parola. E viaggiare è, in Pirandello, conquistare le radici.
Quella “corruzione dialettale” è una interscambiabilità tra lo scavo della parola nella grecità del vissuto pirandelliano e le eredità dei linguaggi arabi di Girgenti. Il tutto in un dialogare tra il personaggio “io” e i personaggi nell’io.
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