di Pierfranco Bruni
Io sono ormai un camminatore che taglia a
fette la solitudine e di alcun dettaglio mi meraviglio. Tra i libri che ho
scritto e ripetuto più volte, perché resto convinto che uno scrittore scrive
soltanto due libri, nonostante ne possa pubblicare cento e due, me ne manca
uno.
Perché ne scrive due?
Il primo è quella della sua vita con la
griglia delle sue emozioni e del nulla che ritorna, costantemente, nel suo
essere uomo e scrittore.
Il secondo è quello della metafisica del
linguaggio e il linguaggio è la parola dell’anima che è fatta di tempeste di
inquietudini di santità.
Ebbene, lungo questa strada si incontrano
nostalgie e sconfitte, vittorie e capitolazioni, utopie e lacrime. Ma si riesce
a capire soltanto nel momento in cui non si vive per raccontare e non si
racconta per tentare di vivere.
Si riesce a capire nel momento in cui giunge
il tempo della dimenticanza.
Leopardi ha tratteggiato le ricordanze e
Omero ha giocato con il fato dello specchio, che ha rigato i sentieri del
nostos.
Bisogna vivere per dimenticare.
Io ormai scrivo soltanto per dimenticare. Mi
manca un libro a cui devo dedicare quel pezzo del mosaico mancante. Un libro su
Nerone. Mi manca un libro sulla rivendicazione di Nerone.
Certo, è nella linea della mia formazione
alla Cioran, alla Eliade, alla Zambrano, alla Pavese. Dirò ancora.
Occorre recuperare Nerone dalla bruttezza
dove la storia lo ha posto. Occorre leggerlo nel tempo in cui è vissuto
smascherando i consumatori e i venditori di leggerezza e di menzogne, che hanno
disegnato la sua figura e il suo operato.
Scrive Cioran che occorre vendicare
culturalmente Nerone. Scrive che se fosse, lui, un poeta non avrebbe pace fino
a che “Nerone non fosse vendicato”.
Ha ragione, non perché io appartengo alle
lezioni disperanti di “lacrime e santi” o dell’antico “considerazioni di un mondo
peggiore” di Cioran, ma perché accanto a Cioran ci sono le lezioni di Eliade,
di Pavese, di Ionesco, di D’Annunzio e le teologie delle culture sono
l’assoluto del peggio che non riescono ancora a mostrare il coraggio dovuto nel
dire che Beatrice è il doppio della finzione di Penelope e Didone è la bellezza
che si specchia negli occhi di Nausica.
La letteratura non è mai una finzione e, non
essendo una finzione, resta il dolore, il tragico, l’immenso oltre l’oblio.
Il fuoco di Nerone è la follia di una civiltà
decaduta perché l’Occidente aveva bisogno delle fiamme e degli incendi per dare
un senso alla divisione tra cristiani ed ebrei.
Le fiamme di Nerone sono la metafora di un
poeta folle che senza il canto non avrebbe avuto la forza di separare la poesia
dalla filosofia.
Nerone, il folle poeta, comprende che la
poesia non ha maschere e non può confrontarsi e neppure contrapporsi alla
filosofia. Nerone è nel crollo di una civiltà e di un mondo “peggiore”, pessimo
direbbe Sgalambro, che ha accolto i barbari che sono avanzati, come ha recitato
Kavafis, in tutto l’Occidente.
La morte di Seneca non è la fine di un uomo o
di un filosofo. È anche la distinzione tra il poeta e la filosofia. Ma i poeti
possono dialogare con la ragione?
Nerone segna la fine di un mondo perché Roma
aveva bisogno degli incendi dell’anima per recuperare la sua identità augustea.
La saggezza di Seneca non conosce il
mistero, ma il suicidio e la consapevolezza della vita che ha la sua brevità.
La poesia è nell’immortalità dei popoli.
Nerone è un malinconico disperato che cerca
la salvezza nella follia. Ma non è la
sua follia a dare fuoco a ciò che era stata una civiltà nell’Occidente, di ciò
che era stato l’Occidente.
Le fiamme di Roma hanno eredità che sono le
fiamme di Troia.
Qual è la differenza tra l’astuzia di Ulisse,
il mio Ulisse, e ciò che viene definita la pazzia di Nerone?
Due civiltà incarnate da due città e da due
mondi che si riducono in cenere.
Troia ingannata dai Greci e Roma che implode
nel suo spirito latino nel momento in cui l’Occidente diventa un trascinamento di altre
civiltà - culture. Seneca che dialoga con Paolo è la
rottura di un processo culturale in uno scontro tra l’Occidente e l’Oriente.
Dice sempre Cioran: “Senza un Nerone, in
impero agonizzante manca di stile, una decadenza perde qualsiasi interesse”.
Indicare Nerone come il protagonista
dell’incendio di Roma e della persecuzione cristiana significa far prevalere
una teologia della decadenza dell’Occidente.
Nerone era soltanto un poeta, folle come sono
i poeti, e distratto dalla sua cetra. Ma non incendiò Roma. Non uccise Seneca.
Non conosceva gli ebrei e i cristiani pavidi di reggere al confronto con la
civiltà.
Un racconto che racconta oltre le maschere
perché l’assurdo è recuperabile dalle parole di Kafka, Ionesco, Pirandello. E
se la storia ha le voci soltanto della ragione perderà completamente il vento
della metafisica dell’anima.
Se Troia, ingenuamente, ha permesso di far
entrare in città il Cavallo, Roma, nonostante Seneca, ha processato Nerone come
l’incendiario.
Noi, in fondo, restiamo i figli e gli eredi
di Troia. Se siamo i figli di Enea dovremmo essere anche i morti di Nerone,
ancora agonizzanti nel fuoco di Roma.
In questo incrocio di paradossi siamo i
sopravvissuti di tre egemonie: Itaca, Mediterraneo, Troia, tra Mediterraneo,
Balcani e Asia, Roma, conquistatrice di civiltà galliche. Ma siamo anche i
figli del rimorso, ovvero restiamo profondante i figli di Cartagine.
Dunque, Nerone? Se abbiamo permesso a Tiberio
di non comprendere Pilato e Cristo possiamo permettere un processo a un Nerone
formatosi alla scuola di Seneca? Ma condannando Nerone non condanniamo anche
Seneca come un maestro non attendibile?
Se Ulisse è diventato un mito ed Enea un
profeta, Nerone resta ancora l’incendiario? Bisogna avere la forza e l’orgoglio
del Conte di Montecristo. La vendetta non ci salva, ma il coraggio della verità
sì.
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