di Pierfranco Bruni
Sarà presentato a Roma, in occasione del Centenario della nascita di Giuseppe Berto, (1914 – 1978) il saggio di Pierfranco Bruni: “Giuseppe Berto e la necessità di raccontare”. L’incontro è organizzato dal Sindacato Libero Scrittore nell’Aula Magna di Palazzo Sora, Corso Vittorio Emanuele II, 217, alle ore 17.00. Parteciperanno, oltre allo scrittore Bruni, gli studiosi e docenti universitari Giovanni Antonucci, docente universitario ed esperto di cinema e teatro, Neria De Giovanni, saggista e Presidente Associazione Internazionale dei Critici Letterari e Francesco Mercadante, Ordinario emerito La Sapienza Roma e Presidente del Sindacato Libero Scrittori.
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Oltre ogni schema. Fuori dai realismi e dentro la vita come esistenza e umanesimo il legame tra lingua e letteratura in Berto è un percorso metaforico e metafisico. Lo scrittore Giuseppe Berto ha lavorato su una griglia di linguaggi che hanno sempre un riferimento antropologico. La lingua, per lo scrittore, in fondo, resta sempre un elemento antropologico attraversato da una esperienza che non è soltanto direttamente esistenziale, ma è anche giocata dentro i codici di un vocabolario.
Tra gli scrittori del Novecento, che hanno usato una struttura linguistica abbastanza composita, oltre Gadda, Pasolini e Meneghello, c’è certamente Berto. Il Berto de “Il male oscuro”. Una forma linguistica sperimentale dal punto di vista strutturale, ma “enigmatica” nella proposta di un vero e proprio vocabolario che usa la parola e la sintassi nella sintesi di un raccontare.
Tra i suoi libri che maggiormente risentono di un apporto antropologico c’è, certamente, “Il brigante”. Ma tutto il trascorrere linguistico di Berto si è mosso da una esperienza che ha la sua precisa funzione antropologica. Questo perché è stato sempre uno scrittore attento alle manifestazioni di una lingua che ha giocato su due piani. Quello della tradizione quello della forza innovativa.
Nella sua “parola” ci sono esperienze ben vissute che vanno da Mogliano Veneto, città natale, a Venezia stessa e da qui alle esperienze di espressioni umane e culturali, la cui koiné è stata mediterranea.
Le sue “guerre” nel Mediterraneo sono anche un intreccio di linguaggi. D’altronde è in quel contesto che si fortifica la sua “azione” di scrittura e di scrittore. A compilare il suo percorso composito di processo linguistico è stato il suo vivere in Calabria e il suo abitare una lingua che Pavese aveva già definito greca anche se il contesto geografico calabro di Berto è abbastanza diverso dalla esperienza vissuta da Pavese.
Comunque la varietà delle lingua e dei dialetti della Calabria sono una forza trainante in quanto costituiscono un legame tra le lingue del Regno di Napoli e il Mediterraneo, come ho cercato di testimoniare nel mio saggio “La necessità di raccontare”.
Berto, da questo punto di vista, si rivela abbastanza legato alla tradizione mediterranea e credo che a cento anni dalla nascita anche questo sarebbe un elemento significativo per approfondire il suo essere scrittore e la sua necessità di scrivere come ho sottolineato nel mio libro a lui dedicato dal titolo “La necessità dello scrittore”.
Forme di linguaggio e luoghi rappresentano una vera e propria funzione etnica in Berto. Si pensi all’atmosfera mediterranea de “La gloria” o a quella completamente veneziana di “Anonimo veneziano”. Ma la lingua, in Berto, non è mai una costruzione. È una identità che nasce in quell’appartenenza che è fatta di eredità esistenziali e di parlate.
La Calabria lega le eredità del padre con la terra che lo ha visto nascere. Un elemento antropologico nell’essere antropologia dell’anima la sua scrittura. La lingua viene ad essere frammentata per ritrovare la sua unitarietà nelle diversità dei linguaggi. Ma è tutto il Mediterraneo, le lingue, i dialetti, le koinè di una geografia tra lingua ed esistenza che costituiscono il viaggio dentro una letteratura fatta di simboli e di attraversamenti. Berto resta un punto centrale nella letteratura del Novecento.
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