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sul blog del Caffè Letterario La Luna e il Drago

domenica 23 novembre 2014

Le Parole nella Grande Guerra il 27 novembre a Brindisi

UNA ANTEPRIMA  DELLA RELAZIONE DI PIERFRANCO BRUNI AL CONVEGNO DEL 27 NOVEMBRE 
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Riviste, letteratura e Grande Guerra. Le riviste letterarie e il dibattito intorno  alla Prima Guerra Mondiale e oltre. Il tema assume rilevanze culturali interessanti. Tutta la cultura italiana prese una precisa posizione. Tra interventisti e neutralisti. La dialettica fu abbastanza forte e aperta. Ma si guardava sempre al futuro. Vide in primo piano protagonisti della politica e protagonisti della letteratura che andarono a morire nelle trincee.


Tra questi Renato Serra. Ma ancora oggi il dibattito prosegue. Io ho cercato di enucleare una sintesi e una apertura di discussione attraverso alcune considerazioni che toccano soltanto pochi elementi soltanto di ordine letterario.

Storia e letteratura. Dentro la vita. L’impegno politico, l’interventismo nella Prima guerra mondiale, 1914 – 1915 – 1918,  e gli scrittori italiani. Da Ungaretti a Marinetti, da Renato Serra, che morirà in guerra, a Malaparte sino a Papini. Un ruolo fondamentale venne disputato da Giuseppe Prezzolini.
Da “La voce” a “Lacerba”. Il novecento fu l’epoca della riviste che svilupparono uno straordinario dibattito. Un capitolo che presenta una molteplicità di visioni e di impostazioni sia di ordine giornalistico sia di ordine storico. Il Novecento è stato il secolo in cui le riviste hanno costituito un modello formativo oltre che una palestra di sicura dialettica. 
C’è da dire che la storia del Novecento è costellata, nella letteratura e nell’arte, da una miriade di organi di stampa che hanno segnato percorsi significativi, le cui tracce indelebili restano testimonianze della valenza di indirizzi, di scuole e di correnti che hanno fortemente caratterizzato il secolo.

Furono “La Voce” e “Lacerba” le riviste che più e meglio, come scrivemmo io e Pio Rasulo in un saggio dedicato alla rivista “Primato” del 2001 e poi 2004, esprimeranno le inquietudini e le speranze dei primi decenni del secolo. Tra l’una e l’altra si colloca “L’Anima”, nata dalle difficoltà interne che inizialmente percorsero il cammino de “La Voce”. “L’Anima” fu l’espressione diretta degl’interessi filosofici di Papini e di Amendola che la fondarono nel 1911, estintasi nel giugno di quello stesso anno, senza alcun preavviso o congedo. Ai due fondatori si erano uniti altri vociani: Boine, Marracchi, Vannicola. La rivista usciva in fasci­coli mensili di trentadue pagine ed era gestita direttamente da  Papini - Amendola. Non ebbe una propria redazione e l’indirizzo risultava quello dell’abitazione fiorentina di Papini.
L’interventismo e il dibattito sulla Prima Guerra Mondiale vide protagonista, dunque, “La Voce”, la quale venne fondata a Firenze nel dicembre del 1908 da Giuseppe Prezzolini, che la diresse fino al novembre del 1914, eccetto un breve periodo (aprile-ottobre 1912) durante il quale la direzione fu tenuta da Giovanni Papini.
La periodicità, settimanale fino al 1914, divenne quin­dicinale. Antipositivista e vicina al pensiero di Croce e di Gentile, si mosse entro il solco dell’idealismo e di un certo spiritualismo di maniera. Affrontò con coerenza i problemi del Mezzogiorno, quelli del suffragio universale, i problemi della scuola e dell’educazione. Nondimeno registrò contrasti interni e scismi.
Nel 1911 Salvemini se ne allontanò, dando vita a “L’Unità” e altrettanto fece Amendola che, come si è accennato, insieme a Papini fondò “L’Anima”. Ripreso il controllo, dopo il breve abbandono del 1912, Prezzolini ne accentuò l’indirizzo antidemocratico e interventista e diede più spazio alla letteratura.
Alla fine del 1914, violentemente attaccato sulle pagine di “Lacerba” da Papini e da Soffici, lasciò la direzione al De Robertis che la conservò fino all’ultimo numero uscito nel dicembre del 1916. Durante la direzione di De Robertis fu detta “La Voce bianca”, dalla sua nuova copertina. In quest’ultima fase vi collaborarono Ungaretti, Cardarelli, Campana, Onofri, Baldini, Bacchelli, Cecchi e molti autori abbastanza noti.
“Lacerba”, quindicinale fiorentino, edito da Vallecchi, iniziò le pubblica­zioni il 1° gennaio 1913 e stampò 69 numeri. Nacque in conseguenza della secessione di Papini e Soffici da “La Voce”. Fu diretta da Papini che intanto era entrato in contatto col gruppo futurista.
Con l’avvento della prima guerra mondiale tutto fu riassorbito dall’impegno politico: “l’ansia della libertà artistica di “Lacerba” finì per risol­versi nella elaborazione dei temi della propaganda interventista” (Cfr. Pierfranco Bruni e Pio Rasulo in “Primato. La sfida delle idee”, Csr, 2001, 2004, e poi in “Il coraggio delle parole. Scrittori in Primato” di Micol Bruni e Marilena Cavallo, Mibac – Iral, 2010; Pierfranco Bruni, “Giuseppe Caradonna e la Destra nazionale”, Ciarrapico, 1997; “Temi e percorsi della poesia italiana del Novecento”, Il Coscile, 1998).

Ma chi furono i protagonisti di questo dibattito? Voglio soltanto citare alcuni, oltre al già menzionato D’Annunzio e Marinetti che espressero le loro opinioni oltre le riviste citate. Mi riferisco, in modo particolare, a Papini, Prezzolini, Piero Jahier.

      Giovanni Papini, nato a Firenze il 1881  (e morto sempre a Firenze il 1956), segnò un percorso preciso nella storia della letteratura. Un percorso in cui la testimonianza diventa un rapporto costante tra la vita e la letteratura e la stessa letteratura diventa il più delle volte una dichiarazione esistenziale.
      " La Tribuna fu la sua prima palestra e il suo primo cenacolo. Fu un laboratorio di idee e di incontri. Significativo fu certamente il suo incontro con Giuseppe Prezzolini. E significativi restano indubbiamente le esperienze e i contributi alle riviste come "Leonardo", "La Voce", "Lacerba", "Il Frontespizio". Nella Prima Guerra Mondiale occupò una posizione interventista. Al 1906 risale “Tragico quotidiano” e al 1907 “Il pilota cieco”. Sono due volumi in cui vi campeggia una letteratura (ma soprattutto una poetica) metafisica. Infatti sono dei versi e propri "racconti metafisici".
      Ai 1911 appartengono i racconti racchiusi in L'altra metà e all'anno successivo i racconti “Pagine e sangue”. Tra gli altri scritti non si può non ricordare “I testimoni della passione” del 1937, “Concerto fantastico” del 1954 e alcuni scritti pubblicati postumi come “La seconda nascita” del 1958 e i “Diari”. Pubblicò testi di poesia e numerosi testi di saggistica come Il crepuscolo dei filosofi del 1906, “Il mio futurismo” del 1914, “Stroncature” del 1916, “Italia mia” del 1939, “Santi e poeti” del 1948, “Il diavolo” del 1953 e altri scritti usciti postumi.
      Uno dei testi che segna inevitabilmente la vita di Papini è certamente “Storia di Cristo” che porta la data del 1921. Un testo vissuto completamente sella sua diretta esperienza umana e religiosa. È uno scritto che pubblicizza sostanzialmente la sua conversione al cattolicesimo. Papini era un ateo intransigente. Con “Storia di Cristo” si racconta appunto il suo accostamento alla religione cattolica.
      L'opera più conosciuta resta indubbiamente “Un uomo finito” che risale al 1912. Si tratta di una autobiografia in cui il narratore fa una resa dei conti della propria vita. Così sottolinea: "Che cosa volevo imparare? Che cosa volevo fare? Non lo sapevo. Né programmi né guide: nessuna idea precisa. Di qua o di là, est od ovest, in profondità o in altezza. Soltanto sapere, sapere, saper tutto. (Ecco la parola del mio disastro tutto!). Fino d'allora sono stato di quelli per cui il poco o la metà non contano. O tutto o nulla! E ho voluto sempre il tutto - e che niente sfugga o resti fuori! Completezza totalità - più niente da desiderare, dopo! Cioè la fine, l'immobilità, la morte!".
      In Papini d'altronde la consapevolezza della crisi è la ritrovata memoria. In “Vita di Cristo” c'è questa ritrovata memoria che non è più attesa ma coinvolgimento di una sperata e definita consapevolezza.
      In una sua poesia Papini recita: "…Ma quando al finire del giorno/ ritrovo, stracco e freddo, la fossa della strada/ nella mezzombra lilla del ritorno,/ sono il povero triste a cui nessuno bada".
      Con questi versi eravamo al 1917, alla “Venti poesie” di “Opera prima”. Il Papini successivo non è soltanto lo scrittore della "redenzione" è anche lo scrittore di quel gioco nostalgico che vive la malinconia del tempo su una dimensione che è anche, come ha sostenuto Borges, intrecciata da quei segni fantastici fatti di crepuscoli e di sogni.

Giuseppe Prezzolini, (Perugia 1882 - Lugano 1982), infatti, ha scritto una “Storia tascabile della letteratura italiana” in 70 cartelle. Identità nazionale e letteratura: un intreccio che non smette di affascinare e suscitare discussioni e che ha trovato in Prezzolini il custode di queste istanze. Istanze che trovano proprio nel valore della classicità un punto di sicuro riferimento.
Un altro autore che si inserisce nel quadro dello studio dei classici resta certamente il suo lavoro su Machiavelli e il suo saggio scritto nel 1926  con un titolo che recita già di per sé uno spaccato storico: “Vita di Nicolò Machiavelli Fiorentino”. Con Machiavelli si entra nell’epoca moderna. Proprio in questo scritto si legge: “Savonarola era il Medio Evo, Machiavelli era il tempo moderno che nemmeno i suoi tempi potevano intendere. Machiavelli aspettava tutto da Dio, Machiavelli tutto dall’uomo”.
      Direttore della rivista "La Voce" dal 1908 (dalla sua fondazione, 20 dicembre 1908) sino al novembre del 1914 (nel periodo compreso tra i mesi di aprile e ottobre la diresse insieme a Giovanni Papini, con il quale già nel 1903 aveva fondato "Il Leonardo"). Il 1914 è l'anno della guerra e Prezzolini è tra gli interventisti. Viene mandato al fronte come ufficiale. "La Voce" fu una rivista che ha suscitato un vivace dibattito in quegli anni. Una rivista che ha chiaramente formato e stimolato generazioni. Rimase in vita sino al 1916.     
      Impegno filosofico, letterario, ideologico. Dopo la guerra lavorò all'Istituto internazionale per la cooperazione intellettuale. Visse a New York. Qui insegnò alla Columbia University dirigendo, tra l'altro, la Casa italiana con un assiduo impegno per la diffusione della cultura italiana negli Stati Uniti.  Nel 1936 pubblicò i primi due volumi del “Repertorio bibliografico della storia e della critica della letteratura italiana”. I successivi volumi usciranno dieci anni dopo. Prima di fermarsi a Lugano soggiornò in Italia. Collaborò a quotidiani e a settimanali. Scrisse e pubblicò saggi sulla cultura italiana, su personaggi della storia e del pensiero politico (su Machiavelli), su esperienze di viaggi.     
I temi letterari sono stati sempre al centro delle sue ricerche e delle sue attenzioni dialettiche. Tra i suoi scritti e le sue pubblicazioni c'è, appunto, la “Storia tascabile della letteratura italiana” di Giuseppe Prezzolini che resta un riferimento storico di estrema sintesi con la quale tuttora bisognerebbe confrontarsi.  

Piero Jahier era nato a Genova nel 1884. Muore a Firenze nel 1966. fu uno dei maggiori esponenti della storica rivista “La Voce”. Le sue prime esperienze poetiche appartengono agli anni Dieci del Novecento. Appunto tra il 1912 e il 1917 risalgono le pagine di “Con me e con gli alpini”.
Ci sono scrittori che scompaiono dall’immaginario letterario ma che non si dimenticano. Non si dimenticano e ritornano proprio nel momento in cui le epoche rivivono alcune loro fratture e le civiltà hanno bisogno di memoria per incidere nel cuore del tempo.
      Scrive Piero Jahier: “Sono nato a Genova - dove mio padre era Pastore Evangelico – l’11 aprile 1884. A Genova ho avuto i miei primi ricordi d’infanzia, fino a 5 anni. Mio padre - Pier Enrico Jahier – in italiano Giaiero – discendeva da antichissima famiglia valdese, nota come ‘la famille des Pasteurs et Capitanes Jahier’, che ha dato alle guerre di religione sulle montagne valdesi pastoni e capitani, un eroe – il Capitano Barthèlemy (1655), creatore della guerra partigiana in montagna, e un apostata – il Capitano Bernardino Jahier, di Pramol (1958). Mio padre era assai fiero di queste origini, e io non avevo dieci anni che essendo egli pastore a Susa (che è la città descritta in ‘Morte del Padre’) mi fece fantasticare a piedi in un fantastico pellegrinaggio di due notti e due giorni – gerla in spalla – il Colle dell’Assietta, discendere in Val Chisone, e poi risalire a Pramol (- prato molle – un gruppetto di casupole montanare, culla della famiglia), dove il vecchio Régent del luogo – un Jahier – mi fece lezioni di tradizioni familiari davanti ad una scodella di trifola salà (patate salate) e polenta di grano saraceno” (“Cronaca personale” in “Poesie in versi e in prosa”).

Uno scrittore e la tragedia della guerra. Questo è stato sempre il punto che vide protagonisti i letterati che parteciparono alla Grande Guerra. Una delle osservazioni più forti ma anche più belle resta quella di Renato Serra  nato a Cesena il 5 dicembre 1884  e morto in pieno conflitto sul Monte Podgora il  20 luglio 1915.  
Così affermò in “Esame di coscienza di un letterato”: “Credo che abbia ragione De Robertis  quando reclama per sé e per tutti noi il diritto di fare della letteratura, malgrado la guerra. La guerra… Son otto mesi, poco più poco meno, ch’io mi domando sotto quale pretesto mi son potuta concedere questa licenza di metter da parte tutte le altre cose e di pensare solo a quella”.
Una dichiarazione di fede per la letteratura. La letteratura ha un senso e una memoria che va oltre le parole e resta nei sentimenti dei popoli e delle genti.

La letteratura, dunque, è sempre oltre. Gli scrittori qui menzionati, sono soltanto pochissimi, non si sono fermati ad una discussione e ad una partecipazione legata al momento della guerra. Ma sono andati oltre. Si pensi a Prezzolini, a Papini e poi anche a Curzio Malaparte. La letteratura cerca di cucire le divisioni e le ferite e resta un cammino in una memoria indelebile.

Le Riviste ebbero un ruolo predominante nel dibattito che precedettero l’entro dell’Italia in guerra. Forse, per la prima volta, i poeti e gli scrittori ebbero una funzione predominate all’interno di una dialettica anche politica. Il tutto cominciò, comunque, con il Pascoli del1911 a Barga con il suo discorso su “La Grande Proletaria si è mossa”. Un poeta che preannuncia non soltanto l’interventismo ma preannuncia ciò che sarà il Fascismo.

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