di Marilena Cavallo
Marilena Cavallo |
La parola ha un obbligo. Una necessità. Un incidere. L’obbligo di essere precisa. Essere precisi non è essere chiari. La parola non ha bisogno di trasmettere chiarezza. Vive anche di ombre. La necessità di comunicare non ciò che il lettore vuole leggere o ascoltare o sentire. La necessità è sempre l’interiorizzazione dello scrittore. L’incidere è uno scagliare schegge di emozioni che vivono, per obbligo e necessità, nel cuore dei processi esistenziali dello scrittore.
Tutto si appropria del valore dell’essere. Non della conoscenza. Si appropria, il tutto, del dubbio. Pirandello riesce ad intrecciare il suo vissuto (che si trasforma in esperienza e testimonianza) in un vero e proprio significato archetipico.
Ciò è dovuto soprattutto alla sua formazione che ha scavato nella cultura popolare e, quindi, scavando nel mondo della conservazione e della tradizione, ha dovuto sempre confrontarsi con la parola.
La parola e il personaggio costituiscono non due schemi o due percorsi separati. Sono un tutt’uno di un articolato che presenta uno specchio che ha riflessi anche di notte in una notte in cui la luna non compare.
In Pirandello, la parola è il personaggio. Non si tratta di una dicotomia. Piuttosto di una variante che permette allo stesso Pirandello di costruire il personaggio non narrando o teatralizzando, ma grazie ad un vocabolario di sintesi rappresentato non da frasi bensì da pochissime parole.
L’uso della parola è uno straordinario strumento che si pone a servizio della misteriosa avventura della fantasia. Ed è la parola che in Pirandello crea il linguaggio che, a sua volta, permette al personaggio di farsi destino.
Proprio in Mal giocondo, che vive di immagini e di immaginario oltre che dei luoghi che diventano “spaccati” di metafore, si avverte la bellezza della parola attraverso la quale si vive l’interazione tra il reale e il sublime che è il “paesaggio” meta-empirico che, a volte, si respira nelle Novelle per un anno.
Un testo che esce nel 1922 e diventa l’asse intorno al quale si dichiara completamente il Pirandello che nasce poeta, e il Pirandello che “esorcizza” i personaggi per una richiesta di forte religiosità popolare.
Occorre, chiaramente, inserire in un tale contesto la sua produzione saggistica che ha nella “parabola” dell’Umorismo la ferita e la ricucitura di un taglio inesorabile che vive il dolore e l’allegoria, la malinconia e l’ironia. Ma in una tale rappresentazione c’è sempre l’uomo, ovvero l’uomo – personaggio che è in Pirandello o che è sempre Pirandello.
“Prima di giudicare la mia vita o il mio carattere mettiti le mie scarpe, percorri il cammino che ho percorso io. Vivi il mio dolore, i miei dubbi, le mie risate. Vivi gli anni che ho vissuto io e cadi là dove sono caduto io e rialzati come ho fatto io” (Pirandello).
È una forte affermazione di uno scrittore che ha sempre vissuto ciò che ha scritto. La sua scrittura non è il destino delle parole. La sua scrittura è il personaggio che nasce dentro la sua (quella) parola.
Dunque, sembra naturale che il valore della parola abbia un senso ben definito e non può essere considerata oltre la metafora e il significante della metafora stessa.
Come Mattia Pascal è il senso del destino e Enrico IV è la recita che diventa uomo così l’orizzonte del destino e il magico della recita si leggono come un “male giocondo”.
Quel Mal giocondo che attraverserà tutta la decadenza e l’estasi nel tempo e nell’immagine della memoria del Novecento. Un Novecento letterario che pur confrontandosi con la storia resta sempre il secolo in cui il personaggio è costantemente oltre la realtà. Infatti la realtà è una dissolvenza. Il personaggio è l’anima del centro e dell’orizzonte. La letteratura è ricerca del personaggio nella parola ritrovata.
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