di Pierfranco Bruni
D’Annunzio: “Incontrammo colui/che i Latini chiamano Ulisse” (dal Canto IV di “Maia”).
Il codice del viaggio ha una sua identità non solo estetica, ma anche inesorabilmente metaforica in un D’Annunzio che ha fatto della sua vita l’instancabile paesaggio di un tempo vivo. Non ha mai volutamente decifrarlo.
Il tempo. Perché il piacere è un assoluto dell’innocenza che diventa fuoco dopo avere attraversato la morte in un trionfo non meta-storico e neppure tanto meta-fisico, quanto piuttosto ardentemente sublime. Ma è sublime il viaggio e lo è soprattutto se lo si identifica nella geo-esistenza del labirinto. Come fa Omero con Ulisse.
D’Annunzio è Ulisse. Non nella maniera sabiana o kavafisiana. Piuttosto si pone in quel limite lungo il quale si sono posti Ungaretti, Cardarelli e Pavese. Non si tratta di una finzione letteraria.
L’ulissismo in Pavese è magnificenza degli dei e dei messaggeri che giungono da terre lontane.
In Cardarelli si vivono i ricordi come strazio delle malinconie.
In Ungaretti l’abisso è un naufragare estetico e fisico sulle note di una nostalgia leopardiana.
D’Annunzio è nel mito diventato griglia di archetipi e non c’è bisogno di nominarlo quell’Ulisse che si chiamerà Odisseo o Nessuno, perché vive soprattutto nel buio degli occhi e nella luce dei passaggi di tempo.
Come nel “Notturno”. Il romanzo (o diario senza date e cifre) scritto nel 1916 e pubblicato nel 1921. D’Annunzio è Ulisse. Un uomo che conosce le eredità e le appartenenze, ma sa che ogni viaggio vive di una sua identità, e quando la sua isola non sarà più l’Abruzzo avrà capito, definitivamente, che la vera osmosi delle eredità è l’intreccio tra la grecità e la latinità in un Mediterraneo sommerso e indefinibile.
Indefinibile perché ogni ritorno è indefinibile sia nell’immaginario panico sia nel vissuto metafisico della conoscenza.
Da Penelope a Penelope in un amore straziante tra la terra e la luna di Circe, Calipso, Nausicaa …
Da Eleonora Duse ad Eleonora Duse pur negli amori sensuali di attrazioni che sono il vivere tra le alchimie segnate come strategie del non morire.
Ulisse si affida al fato, ma è come se chiedesse al fato di prolungare ogni volta che terra ha raggiunto il viaggio.
D’Annunzio si affida al sublime dell’unicità e ci riesce, ma conosce la profondità della solitudine e imprime nello specchio l’anima perché sa che “Quando l’anima è bella non ha gioia se non nel donarsi grandemente” (dal “Notturno”).
Ulisse si dona. Si dona a Calipso ma appartiene sempre a Penelope.
D’Annunzio si dona tra i luoghi e le alcove, ma sa che il suo destino e la sua Opera è un fuoco e appartiene ad Eleonora.
Il viaggio terra – destino si imprigiona, non si intreccia, tra le isole, i giorni della curiosità che è sapienza, e la ricerca non è quella di Dante. È il mistero desiderato che non resiste all’impossibilità del ritorno cercato.
Il ritorno è una cerca costante e a volte necessaria, ma raggiunto non ha più piacere o innocenza. Ha piuttosto il fuoco che si vive nei “nostri” Notturni.
D’Annunzio: “Il dèmone ha riacceso al mio occhio tutti i fuochi; e soffia sul triste rogo con tutta la sua follia, come nelle più disperate ore di questo martirizzamento senza remissione” (da “Notturno”).
Cosa insiste in questi Odissei?
Noi possiamo essere l’invalicabile viaggio geografico tra le rupi e le disperazioni, tra le mancanze e le assenze volute e non accettate, tra i corsi dei fiumi e le alture del vento marino, ma, in fondo, restiamo incauti viandanti che non smettono di sfidare la sorte.
Così fece Ulisse al cospetto di Polifemo. Così Gabriele, eroe di Fiume, nel contemplare un pensiero: “Nulla dies sine linea”. Il suo “Notturno” è una voce implacabile che penetra il nostro respiro e si fa espiazione.
Entrambi temevano la paura di non essere più impeccabili. Dico la paura e non l’essere… Perché in entrambi è il chiaro scuro del tramonto che annuncia la notte quando la malinconia strugge il pianto delle onde o i granelli di sabbia diventati dune.
Quella malinconia che Gabriele inciderà in tre versi nel suo Notturno”: “O malinconia, malinconia,/di tanto lontano mi riporti/quel che già tanto ti pesò”.
Non si andrà oltre il giorno che non ha una linea.
Se la metafora di tutto ciò ha un senso l’orizzonte è sempre il viaggio. Il viaggio viaggiato nell’altro da sé e nella nostra conchiglia di ombre soffuse.
Ulisse è la finzione di un viaggio reale o forse è il viaggiatore reale di una finzione senza la quale noi non esisteremmo come uomini ma soltanto come maschere… Non tiro nel gioco Pirandello.
In Ulisse e in Gabriele non c’è il caos. C’è il labirinto. Come in ognuno di noi, uomini veri che viaggiano non per cercare o per ritrovar-si, bensì per resistere o per essere oltre gli specchi, le maschere e l’affannarsi a comprendere il doppio.
L’unicità è l’essenziale e il viaggio abitato è l’essenza di un notturno sull’isola.
Ci saranno altri giorni e altri risvegli ci racconta Pavese, ma le onde, con la pazienza, squarciano la roccia (?), e se la roccia comprende ciò devierà leonde chiedendo al vento di portarle oltre.
Ulisse e Gabriele ora si raccontano e intonano un canto dolce e Gabriele dice: “Mi sembra d’aver sul petto affannoso l’impronta della tua mano” (da “Notturno”) e Odisseo risponde: “Ma or dolori entro del petto, a cui/Non so rimedio alcun, voi mi versate”.
E poi il resto sarà nessun giorno senza una linea nell’immenso destino dei viaggi insondabili. Se vivessimo nulla dies sine linea nel viaggio insondabile tra la fine e l’inizio Ulisse e D’Annunzio intreccerebbero, questa volta sì, il mistero al mito, la fantasia al sogno… E la vita non avrebbe storie ma racconti da raccontare…
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