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mercoledì 26 agosto 2015

Il romanzo sbagliato di Pirandello e la solitudine del sublime oltre la confidenza dell’immaginario di Pierfranco Bruni

Pirandello e D’Annunzio: epigrafi del Novecento. Ovvero di un Novecento che si apre al moderno che diventa asse tra la contemporaneità e il classicismo. Comprendere il ruolo di un Ottocento letterario, che diventa dissolvenza, significa attraversare non solo la funzione che ha svolto un movimento come la Scapigliatura, in un intreccio con le culture europee, nel suo focoso modello esistenziale, e il dato letterario dei Crepuscolari, che si slegano con il dibattito futurista a cominciare dal 1905, ma significa, soprattutto, penetrare la funzione, da una parte politica e dall’altra letteraria, di poeti e scrittori come Pascoli e, in particolare,  Pirandello e D’Annunzio.

D’Annunzio, nella narrativa tutta, è il Novecento. In poesia è il superamento del tardo Ottocento, che definisce le linee della modernità della lingua del Novecento grazie ad un linguaggio poetico che giungerà all’Ermetismo.
Così Pirandello, con il suo Mal giocondo, vive la fine dell’età post romantica all’interno di una dimensione profondamente classica. Il classicismo in Pirandello è il legame tra il luogo vissuto come nostos e la nostalgia percepita come distacco.
Nel romanzo Pirandello diventa completamente dentro il moderno dell’ambiguo letterario con il Mattia Pascal. C’è da dire, comunque, che il Pirandello che si destruttura, nella forma e nel pensiero, non è quello dell’umorismo. Ma dello sdoppiamento, in cui l’ironia vive il senso del tragico che è quello che si respira in De Unamuno.
L’umorismo, per usare una metafora, “para” il vento del comico. Mentre l’ironia è il serpente che trova il suo riparo nella ragnatela dell’assurdo al quale non basta lo specchio. E l’assurdo è ciò che ci proporrà Ionesco nella versione di un esistere tra le solitudini, perché nelle solitudini si assorbono l’immaginario e l’immagine che costituiscono la vera metafisica dell’assenza.
Pirandello è lo scrittore dell’assenza oltre ad essere l’uomo della teatralizzazione dell’escluso che inventa il personaggio per auto inventarsi. Sia l’immagine che l’immaginario diventano soggetti – oggetti della perdita e si rincorre l’allegorico senso del tragico di Hoffmann, in quanto l’immagine resiste se si vive e si cattura il vuoto del perduto.
Siamo alla maschera che si confessa, ovvero a ciò che dirà Mishima. Ma Mishima è il tragico nel suicidio. Non è soltanto il tragico e tanto meno l’affermazione del suicidio. Il D’Annunzio che fa trionfare la morte è il Pirandello che fa della morte stessa un mal giocondo. Servendosi dello specchio non usa la causa – effetto dello specchiarsi, in termini wildiani, ma si serve del rovescio dello sguardo.
La metafisica dello sguardo è la rottura dello specchio, ma è anche la ricomposizione dei frammenti di vetro che ricostruiscono i personaggi. L’assenza passa, come un volo, nei labirinti dell’esclusione, e si decontestualizza in un paesaggio, anch’esso metafisico, che è quello dell’estraneità.
La destrutturazione dell’impalcatura narrativa o drammaturgica o poetica è, per usare ancora una metafora, la presenza – assenza della donna velata, perché il velo o la trasparenza del velo è l’apparenza. Ma il tragico non conosce apparenza ed ecco allora l’insistenza del gioco tra doppio e sdoppiamento e della visione, che è immagine, smarrita.
Affinché tutto ciò possa compiersi Pirandello mette in mostra il gioco dell’umorismo che però non gli appartiene e diventa così, l’umorismo, semplicemente, un intrattenimento sino a quando lo spazio mentale intreccerà l’infinito con il labirinto.
Questo non significa che Pirandello accetti necessariamente una tramatura di griglie simboliche. Pur odiando l’arte simbolica, come ebbe a scrivere egli stesso, la destrutturazione del reale porta inevitabilmente, e comunque, alla metafora e la metafora si regge sui solchi del simbolo.
Cervantes, che resta un punto di riferimento per Pirandello, ma anche lo stesso Ariosto, è (sono) la “grammatica” della tela dei simboli dipinti nel tempo dell’anima della scrittura. La maschera, in fondo, diventa un archetipo nell’intreccio dei miti del Mediterraneo nel quale Pirandello sempre si addormenta e si sveglia, vi cerca la vita e vi cerca la morte. Vi cerca, come direbbe Maria Zambrano, gli inferi, perché in ogni forma vibra la morte o “ogni forma è la morte”.
La morte diventa una condizione nella vita e morte e vita sono le contaminazioni della parola che si fa scrittura. Forse anche per questo l’umorismo è un riso amaro, appunto, come le confessioni di Mishima che vive la vita condizionandola alla (nella) morte.
In Pirandello, che si vorrebbe distante da D’Annunzio, la morte diventa un trionfo. Tale da scavarla come una metafisica che passa dall’impossibile all’eros e dall’eros al gorgo che diventerà “gorgo muto nell’impossibile ritorno per Cesare Pavese.  
È qui che si consuma il viaggio dell’assenza. Si consuma la ruga drammatica dei solitari. Pirandello dovrà sempre fare i conti con la solitudine. Quando esce da questo cerchio la sua scrittura lacera il sublime e non ci sono consolazioni.
Ebbe a scrivere proprio Cesare Pavese, in riferimento a I vecchi e i giovani, che venendo a mancare “la forma della solitudine” la parola rischia la deformazione esistenziale. Infatti il 13 gennaio del 1937 Pavese annota sul suo Mestiere di vivere: “I vecchi e i giovani è un romanzo sbagliato perché farcito di antefatti e spiegazioni sociali e politiche che dovrebbero farne un poema morale di idee in organismo e sviluppo drammatico, si frantuma invece in figure che hanno per legge interiore la solitudine e concludono ognuna – con la logica della solitudine – alla pazzia, all’inebetimento, al suicidio o alla morte senza eroismo…non c’è la forma della solitudine… manca l’epopea del mondo dei solitari”.
Concordo con Pavese su questo romanzo, perché la lettura che ne fa Pavese non parte da una astrazione critica o da una metodologia strutturale basata sull’analisi testuale, bensì da una solitudine nella quale individua nello scrittore il lettore di un’anima e nel lettore lo scrittura della metafisica della solitudine. Ovvero una confessione come genere letterario (Maria Zambrano).
Il classicismo di Pirandello diventa così la forza dell’impossibile che vive nel rovescio dello specchio, in cui ogni viaggio della scrittura è una scrittura che si regge sulla tentazione dell’esistere tra l’infinito e il finito.
La logica di ogni limite, in letteratura, è non aver limite e non avendo limite viene meno anche la logica. È l’assurdo. Ma Pirandello è il tragico dei personaggi, nella complessità dell’io narrante, nell’assenza e nel perduto, che non diventerà cammino onirico, ma accerchiamento oltre ogni confidenza dell’immaginario.

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