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mercoledì 12 aprile 2017

Giorgio Barberi Squarotti: il poeta critico che propone Giovannino Guareschi e va oltre Italo Calvino

di Pierfranco Bruni 


 La letteratura italiana del novecento è la testimonianza di una eredità che pone in essere questioni linguistiche e modelli estetici. Uno dei lettori di una simile interpretazione è stato Giorgio Barberi Squarotti scomparso recentemente. Ha sempre letto il testo e mai guardando ad uno scrittore con il cannocchiale  delle ideologie. Mi è rimasto, come pietra miliare, il suo dire su Giovannino Guareschi rompendo gli schemi di una critica imperante e ostile a Guareschi: “Il nome di Giovannino Guareschi è stato, per qualche tempo, un segno di contraddizione non soltanto nella vicenda politica e del costume del dopoguerra, ma anche per quel che riguarda il discorso della letteratura, vittima, almeno in parte, di quest'ultimo ambito, dello stolto sillogismo che uno scrittore di destra, figuriamoci poi un fascista, non può mai essere «grande», e neppure merita di essere preso in considerazione”. Una chiosa che ha rotto proprio una lettura non lettura del desto su Guareschi considerato sempre un non scrittore. Ma Giorgio ebbe l’ardire di andare oltre sostenendo anche: “Guareschi, forse è molto miglior narratore nei romanzi e nelle pagine francamente umoristiche, che hanno sempre quella nota di passione e di serietà che vi collocano dentro la «divina malinconia» lirica”. Una sottolineatura apparsa sulla “Stampa” del 19 febbraio del 1999.   

È stato per molti aspetti un interprete di un linguaggio poetico che ha saputo confrontarsi con linguaggi. Da italianista è stato non solo un attento critico. Non solo una militanza letteraria nella scientificità dei testi. Ma anche un deciso poeta la cui teoria letteraria è diventata nei suoi versi l'unicità di un lirismo ontologico. Ebbe a scrivere nel 1972 (ne “Il codice di Babele”) una chiosa di grande importanza: “La stilistica delle strutture parte da quelle più generali e al tempo stesso generiche: il genere letterario, il metro. Il discorso stilistico sul genere non può che essere fondato sull'esame dei caratteri interpretativi, da parte di un determinato scrittore, degli elementi costitutivi, strutturali, del genere stesso”. Eravamo amici. Ci siamo frequentati nei tempi in cui io ho studiato Sandro Penna e ho scritto o miei saggi su Mario Luzi. Ha scritto sulla mia poesia. Era un testimone di un viaggio poetico in cui la tradizione aveva un senso. Spesso ci siamo trovati insieme intorno alla rivista “Microprovincia” diretta da Franco Esposito.
Uno dei suoi libri che mi ha permesso di approfondire alcuni miei percorsi resta certamente: “Le sorti del tragico. Il novecento italiano: romanzo e teatro”. Ma non dimentico testi come: “Dall'anima al sottosuolo. Problemi della letteratura dell'Ottocento da Leopardi a Lucini” e “Giovanni Verga. Le finzioni dietro il verismo”. Oppure più recenti: “La poesia, il sacro e il patinoire. Saggi su Gozzano e Pavese” del  2009, e “La cicala, la forbice e l'ubriaco. Montale, Sbarbaro e l'altra Liguria” del 2011, o dello stesso anni: “Tutto l'Inferno. Lettura integrale della prima cantica del poema dantesco”.Forse fu  l'ultimo di una generazione che ha saputo intrecciare la poesia e la prosa dentro un linguaggio comune.
Alla Cardelliana maniera. E forse un rondismo nel suo linguaggio era fortemente palpabile. Ma la poesia dei poeti veri era un sigillo sicuro nelle sue interpretazioni, già dal suo primo saggio pubblicato nel 1960: “Astrazione e realtà”. Ha saputo creare la prosa nuova d'arte su un testo di poesia. Guardava con molta attenzione alla storia attraverso la attualità. Era nato il 14 settembre 1929 del a Torino. Muore il 9 aprile del 2017, sempre a Torino.Lascia un disegno di una strategia della critica applicata sempre al testo e mai alla dialettica. La dialettica intorno alla poesia infastidiva. Mentre leggere un testo e interpretarlo aveva e ha un senso mai oggettivo ma sempre soggettivo. Lunghe telefonate per capire comprendere e dirsi. La sua poesia è un Novecento che ha voci antiche e una tradizione che anticipa. Nel suo raccontare il poeta e lo scrittore non si elidevano mai dall'uomo.
Un'opera antropologica nel segno dell'umanesimo della parola. Se oggi la letteratura si pensa di leggerla con i soli strumenti della filologica o della Linguistica si commettono errori di valutazione. Così se si pensa di stare soltanto gli strumenti estetici e metaforici. La comparazione resta fondamentale. Quando nel 1965 pubblicò “La narrativa italiana del dopoguerra” si aprì una vera e propria “vertenza” sulla questione letteraria e sul neorealismo. Modello che non tanto apparteneva alla formazione di Giorgio Barberi Squarotti.
Già a metà degli anni Sessanta ebbe il coraggio di “contrastare” una posizione calviniana sul realismo proprio nel momento in cui scrisse: “Quando Italo Calvino pubblicò, nel 1947, Il sentiero dei nidi di ragno, in pieno trionfo neorealista, aprì il primo caso (che a pochi, per la cecità complessiva dell'ora, apparve tale) di crisi della concezione realista della realtà: nella direzione della richiesta disperata di rendere ragione dell'angoscia della morte, dell'orrore dell'uccidere, della violenza che colpisce dentro, a fondo, e nella decisione di conoscere, del reale, anche il "negativo" come non volontà, rifiuto di scegliere l'azione, il gesto, il vivere stesso”.

Credo che sia chiara la sua posizione, ma anche il suo avvertimento sia come critico sia come intellettuale fuori dalle ideologie e dalle correnti. D’altronde un critico letterario che si porta dentro la “misura” e la grande emozione della poesia non può vivere il sentiero spezzato tra ideologia e letteratura. Tutto deve essere letteraria oltre l’ideologia. Studioso attento e rigoroso di Giordano Bruno non smise mai di confrontarsi con la propria poesia, (poesia sua). Giordano Bruno fu un interprete chiave, su Bruni si è laureato, appunto, con una tesi nel 1952, per legare l’utopia alla poesia. Incisiva resta la sua osservazione: “La letteratura, con le sue figure e le sue forme e, soprattutto con il suo linguaggio, viene a essere, per il Bruno dei dialoghi italiani, un impegno fondamentale che finisce per andare oltre la semplice ricerca dell'efficacia migliore per la presentazione e l'esposizione delle idee e anche oltre la gratificazione della varietà e del gioco fantastico per accattivarsi più avvicentemente l'attenzione dei lettori. Nella Cenaletteratura e filosofia vengono a costituire un nesso strettissimo. La presentazione dell'interpretazione che il Nolano dà alla teoria copernicana con le conseguenze filosofiche che ne trae è anche la commedia grottesca dei due dottori inglesi che difendono, invece, la concezione aristotelica dell'universo ed è anche l'allegorico libro del viaggio nella notte londinese".

Sì, ma non smetto di considerare Giorgio come critico. Ma egli è stato e resta un poeta forte della sua generazione. Un poeta ben calato in una tradizione sia del linguaggio sia dei paesaggi estetici e onirici geografici. Penso alle poesie del 1955. Ai versi del 1956: “…in questa nostra terra/piccola come una foglia di salice,/in riva al mare oscuro delle viti/senza difesa ora che le case/sono vuote di voci, e inutili si alzano/verso la muta chiesa/brulle mani di vecchi”. Poeta fino in fondo! Fu un poeta che ebbe il coraggio di fare il critico. O un critico letterario che non smise di essere un grande poeta.


Nasce come poeta. Un poeta che attraversa la linea che da Pascoli a Sbarbaro con un viaggio perfettamente aderente alla Vita nova sino al tragico di Alfieri. I suoi testi critici rispecchiano la sua posizione letteraria ma viaggiano nella poesia della metafora e nei “pipistrelli” di Pirandello. Diversi sono i suoi scritti e l’intreccio tra la critica e la poesia resta fondamentale. Anzi molto forte. Da Dante a Verga, da Pirandello a Tasso,da Manzoni a Machiavelli, da Pascoli ad Alfieri, da Gozzano a Pavese, da D’Annunzio a Boccaccio. Un intrecciare autori ed epoche in una visione profondamente legata al cuore della parola come ebbe a dire nel suo ultimo saggio dal titolo: “L'ultimo cuore del novecento. Paesaggi per la poesia” risalente al 2012. Così in poesia a partire dal 1960 con “La voce roca” sino all’ultimo testo del 2010: “Il giullare di Nôtre-Dame des Neiges”. Nella sua poesia il sogno e il dolore, il tempo e la finzioni sono la rappresentazione di una ragnatela incisa tra le corde della parola. Un archetipo che scava nel labirinto della sua parola tra il vociare e l’enigmatico. Una poesia che diventa un raccontare. Un raccontare che è nella poesia della sua vita. Un modello gozzaniano che si apre sempre alla vita.

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