di Pierfranco Bruni
Un grande sperimentatore sul
piano della ricerca archeologica, antropologica e paesaggistica. Ha orientato
la sua analisi sul territorio mediante una chiave di lettura comparata, che
pone come intreccio i modelli che sono stati (e che continuano ad essere) quelli della valorizzazione della cultura,
delle culture e dei beni culturali. Ha posto il mare e i deserti quali elementi
interpretativi del paesaggio. Documentarista, giornalista, regista, scrittore.
abitatore di luoghi e di immagini.
Possedeva una grande
dimestichezza con il mare, tema di molti suoi studi e per il quale nutriva un
autentico sentimento di amicizia. Al Mediterraneo (ai Mediterranei) aveva
dedicato diversi viaggi geografici attraversando la realtà profondamente
radicata nella metafora, parlando di civiltà, di popoli, di identità in una
visione innovativa e particolareggiata riuscendo così a penetrare le eredità
dei territori.
Mi sto riferendo a Folco
Quilici, recentemente scomparso (Ferrara 9 aprile 1930 - Orvieto 24 febbraio
2018). Ho avuto la fortuna di conoscerlo e di viaggiare con lui in alcuni
territori della Magna Grecia. Era figlio di Nello Quilici, grande giornalista e
collaboratore di Italo Balbo, entrambi deceduti nei cieli di Tobruk, in Africa,
nel 1940.
Al paesaggio Folco dedicò
gran parte della sua ricerca mutuata dall’amicizia con Carlo Belli, altro
grande giornalista e scrittore dei territori della Magna Grecia. Con Belli aveva
stabilito un dialogo costante per cercare di comprendere e di penetrare i
tessuti umani ed esistenziali della Magna Grecia, del Mediterraneo e dell’incontro
tra popoli e civiltà.
La mia frequentazione con
Folco Quilici era incentrata principalmente sulla visione del Mediterraneo. Aveva
seguito la scuola di Braudel , di quel concetto del
Mediterraneo vissuto come “destinazione di un destino”, e questo Mediterraneo
vissuto esistenzialmente e poeticamente non soltanto come realtà fisica ma anche
come realtà esistenziale, lo ha portato, nel tempo, a creare delle comparazioni
con altre discipline. Ci siamo più volte incontrati a Roma, anche al Ministeri
dei beni culturali, e lunghe passeggiate
a Scanno, nei giorni del Premio Scanno.
Profonde discussioni. Il
mare. Quel mare di Melville, di Ernest, ma anche dei pescatori di perle e dei
viandanti di una nuova misura dell’archeo – antropologia.
Abbiamo discusso a lungo sul
valore dell’archeologia non fine a se stessa, bensì aperta a letture articolate
con le altre discipline, in modo particolare con l’antropologia. Folco mi
diceva spesso che l’archeologia è possibile concepirla soltanto attraverso la
conoscenza antropologica dei territori, ossia la conoscenza dei popoli e delle
civiltà.
Ha
osservato in Il mio Mediterraneo:
“Noi mediterranei, insomma, viviamo in un mondo di scenari cresciuti,
sovrapposti, mutati come fossero fondali di un teatro la cui direzione
artistica cambia spesso l’opera sul palcoscenico”.
Avvertiva un forte senso di
amicizia per il mare, inteso come viaggio, spazio e profondità. Di quelle
profondità ne conosceva i misteri, formidabili testimonianze di civiltà.
Viaggiando per mari e per terre, restituì alla cultura della saggezza dei
popoli e dell’ambiente un modello della comprensione, mediante un frammento,
una parlata, un colore, un costume, una visione etnica. Questo intreccio
rappresenta l’eterno incontro tra terre e mari, come sosteneva Carlo Smith.
Folco Quilici, forte della
lezione di Belli, di Braudel e del grande insegnamento di Smith, ha
testimoniato come le civiltà possono essere restituite alle loro identità
attraverso la consapevolezza di una eredità. la modernità del bene culturale
come paesaggio e mai come accademia.
Quilici visitò più volte
Taranto, la città dei “due mari” che amò molto. Navigò dal Mar Piccolo al Mar
Grande, costeggiando la sponda ionica nel Golfo di Taranto, lambendo le coste
del Salento e della Calabria. Da qui alla Sardegna, alla Sicilia, nei luoghi e
nelle geografie del mondo.
Gli orizzonti sono l’immaginario
e il limite che si vengono a creare nel mare lungo le distanze, le lontananze.
Il nostro sguardo cattura il limite che va oltre l’orizzonte stesso. Soltanto
vivendo il mare, mi diceva, è possibile non soffermarsi sul limite, ma vedere
il limite sempre oltre il limite stesso. Una grande testimonianza la sua. I
Mediterranei, gli oceani, gli Adriatici, che vengono definiti con i loro colori,
non portano differenze poiché costituiscono il senso della partenza, del viaggiaree
il senso del ritorno.
Quilici: “Il mio mare preferito è sempre di più il
Mediterraneo. Nessun mare al mondo offre la varietà di spunti di mare e uomo
che offre il Mediterraneo. Nessun mare ha avuto la fioritura di civiltà che
hanno lasciato il segno in un mare come il Mediterraneo”.
La saggezza del viaggio non
solo geografico. La saggezza di un uomo che ha saputo mettere insieme la
conoscenza con la sapienza della consapevolezza dell’uomo nelle civiltà e nelle
epoche.
Lo ricordo con tanto affetto. Un grande ricercatore, un
grande uomo. Uomo di mare. Scrittore con le onde nell’anima.
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