di Pierfranco Bruni
Scrivere
è ascoltarsi. O assentarsi? L'importante è essere percepito. Chi percepisce
vive un viaggio sentito. Oltre ogni linguaggio. Il linguaggio del cinema
diventa comunque spettacolo. Soprattutto rispetto al linguaggio della
scrittura. Il linguaggio del cinema nasce già come immagine e proprio per
questa ha, a priori, la spettacolarizzazione.
Mi
occuperò, in un convegno internazionale di “MEMORIA FIDEI IV” dedicato a:
“L’INQUISIZIONE ROMANA E I SUOI ARCHIVI A, vent’anni dall’apertura
dell’ACDF” che si svolgerà a Roma
dal 15 al 17 maggio prossimo nel salone della BIBLIOTECA DEL SENATO DELLA
REPUBBLICA di filmografia e inquisizione romana e il tema della
spettacolarizzazione è di vitale importanza proprio in quella cinematografia
che si base nello spettacolarizzare la storia.
L’immagine
come dimensione di un raccontare la storia. Nel tema specifico ci sono aspetti
che sono stati attraversati sia per dare risalto a processi storici veri e
propri sia per dare un senso ai nuovi effetti speciali servendosi sempre di
riferimenti che hanno alla base l’elemento storico.
In
questo particolare percorso la filmografia ha dovuto fare i conti, per la
maggior parte delle sue proposte, con la letteratura.
Infatti
il cinema realizza il suo scavo all’interno di una definizione di linguaggi. Il
linguaggio cinematografico ha una sua profonda eredità che nasce dal linguaggio
narrante anche se il linguaggio e il narrato filmico, in più occasioni, non
rispetto fedelmente il tracciato letterario.
“Il
nome della rosa” del 1986 è uno di quei testi che potrebbe essere preso come
esempio, non solo come rottura di schemi tra l’immagine e la trama narrante nel
libro, ma soprattutto come interpretazione perfettamente ideologica alla
questione della Inquisizione in una chiave di lettura forzata su riferimenti
storici che vengono volutamente traviati.
La
filmografia dedicata alla Inquisizione ha considerato purtroppo più gli aspetti
spettacolari che quelli formalmente fedeli alla storia. Un dibattito che
interessa i vari aspetti della Inquisizione come il caso del film “Padrona del
suo destino” del 1998 o “L’opera in nero” del 1988. Le tre fasi della Inquisizione,
quella Medioevale, quella Spagnola – portoghese, quella Romana, presentano una
filmografia che una articolazione di caratteristiche la cui diversità è nel
rapporto tra storia raccontata e storia resa spettacolo.
A
iniziare dal 1943 con “Dies irae” si entra in un intreccio in cui la Inquisizione si apre
ad intreccio e tocca elementi che non sono italiani, ma spagnoli. Questo
aspetto sarebbe da chiarire sino ad uno dei recenti fil dal titolo: “Sangue del
mio sangue” del 2015.
E’
naturale, come già sottolineato, che la spettacolarizzazione ha il sopravvento,
il cinema è immaginario e immagine, ma proprio approfondendo tali solchi la
critica dovrebbe essere puntuale in una interpretazione da condurre su
direttrici storiche e documentate. È su ciò che la discussione resta
completamente aperta per giungere ad un mosaico di scientificità. Indubbiamente
la filmografia che intreccia la finzione alla storia ed entrambi (finzione e
storia) si legano ad un modello di spettacolarizzazione “impressa”, ovvero ad impatto,
è quella che riguarda la
Inquisizione romana.
Comunque
bisogna fare riferimento ad un percorso preciso sul piano problematico, che
riguarda aspetti come la magia, l’alchimia, la stregoneria, l’esoterismo, il
selvaggio come modello antropologico e vaste aree di pensiero filosofico che
restano parti integranti di interesse della Inquisizione. Elementi presenti
nella filmografia antica e moderna. Credo
però che la scelta debba cadere su tematiche robuste che toccano
personaggi e filosofie che hanno caratterizzato il tempo della storia
attraverso discussioni e atti processuali serie dove il contendere vada oltre i
dati relativi.
Voglio
qui ricordare, infatti, i film su
Giordano Bruno, su Tommaso Campanella su Galileo Galilei (nelle loro diverse versioni
e interpretazioni) o su Gostanza da Libbiano, oltre alla figura di Giovanna
d’Arco. Il cinema è sì la macchina del trucco, ma è anche vero che lo stesso
trucco deve avere una base sulla quale poter lavorare. La storia è una base
fondamentale, alla cui radice però dovrebbero esserci sempre i documenti. Sosteneva Marguerite Yourcenar: “…che non
esiste accomodamento durevole tra coloro che cercano, pensano, analizzano e si
onorano di essere capaci di pensare domani diversamente da oggi, e coloro che
credono o affermano di credere, e obbligano con la pena di morte i loro simili a fare altrettanto”
(“L’opera in nero”).
La
storia non militante soltanto, ma abilitata sui documenti dovrebbe tenere
presente ciò per offrire più dimensione critica e meno grido spettacolare.
Infatti è proprio nel registrare la filmografia riguardante tale tematica che
si riscontrano situazioni attanaglianti in cui la critica sui fatti si scontra
con i modelli spettacolari.
La
spettacolarizzazione si pone su tre piani: - il pensiero (Inquisizione romana),
l’azione (spagnola – portoghese), dogmatica (medioevale). La cinematografia ha
puntato, in modo, particolare, sull’azione che offre spettacolo.
Proprio
in virtù di ciò dovremmo tenere presente una cesellatura di un filosofo che ha
pagato duramente il suo essere libero nel tempo della Inquisizione romana,
Tommaso Campanella: “Perché
nascano i buoni e ciascuno faccia l'ufficio a che è nato, e si schifino i mali
ha bisogno ogni comunità di legge”.
Osserviamo con attenzione
la filmografia ma non discostiamoci mai dalla funzione interpretativa che vive
dentro il confronto critico del testo e del film. Una non bella lezione ci
proviene, come già osservato, da “Il nome della Rosa”, dove l’impalcatura
storica risente fortissimamente dell’indirizzo ideologico di Umberto Eco.
Ebbe
a dire l’arso vivo a Campo de Fiori: “ Se questa scienza che grandi vantaggi
porterà all’uomo, non servirà all’uomo per comprendere se stesso, finirà per
rigirarsi contro l’uomo” (Giordano Bruno). Ecco, abbiamo bisogno di verità. Da
una parte e dall’altra senza mai essere supplenti alla realtà
Nessun commento:
Posta un commento