Pierfranco
Bruni
Chi è Alvarez de Castillo? È difficile
poterlo trovare nei libri scolastici. Nelle pagine internet. Mai si inventa. Si
inventa ciò che già esiste. La vita è condizionamento. Sempre. Era nato in un
piccolo paese del Perù. Andino? Sciamano! Gli sciamani sorridono e dicono il
dubbio non affidandosi alla verità, ma alla certezza che la verità è dubbio.
Non di domandano: Cosa è la
Verità.
Spesso mi chiedo perché ci sentiamo in un
paese delle meraviglie quando siamo in un paese delle disperazioni. La
differenza tra disperazione e tragico? La disperazione è Cesare Pavese che non
comprende il tragico di Seneca.
Il dolore e la nenia è Leopardi che si
inventa una malinconia per diventare personaggio dentro le rimembranze e offre
alla filosofia una morale che non può avere. La filosofia non è morale e non ha
morale. La filosofia è la follia del tragico che cerca di annullare la
disperazione viaggiando dove abita Tiresia.
Condizionamenti! Alvaro Corrado non amava
Leopardi. Papini aveva capito che la filosofia delle “Operette morali”
diventava un gioco di leggerezza. Gli Illuministi hanno sempre vissuto la
leggerezza del nulla non indossando mai maschere, ma diventando dei doppi. Le
ambiguità sono vitali in un tempo di incoerenza. La maschera è la recita dei
centomila che diventano memorie sommerse.
Enea legge ciò che sarà. Non ciò che è stato,
come Ulisse. Ma viene dall’Oriente. Enea è Oriente e Ulisse Occidente. È
l'Oriente che inventa Roma paganamente cristiana. Cristo è la Profezia ma anche la Provvidenza. Aveva
messo in conto la doppiezza dell’incolto Pietro. Già perché la Profezia è
"magia" e la
Provvidenza è il "sacro".
La letteratura o ruota intorno al campo
indiano della filosofia o è comicità senza ironia. Viviamo di luoghi comuni. È
stato sempre così. Leopardi non è morto di malinconia. Ma di noia. La sua
noiosa litania non ha permesso di compiere il gesto estremo. Alvarez de
Castillo mi ha insegnato a guardare il tramonto nell’alba e l’alba quando il
cielo ha sfere di crepuscolo.
“Non
cercati nelle parole del mattino. Neppure nella sera delle parole. Resta in
silenzio e dialoga con la Fine
dell’Infinito. Osserva i colori… Ti passeranno negli occhi come involontaria
attesa…”.
Nella mia vita sono ritornato spesso sulla
figura di Alice. Non tanto su quella di Arianna. Alice non solo è una metafora delle allegorie
che si trovano nella favole – fiabe.
Vive tra la morte di Pirandello e quella di Alvaro. Il paese delle
meraviglie non è un reale che si manifesta. È un immaginario che si percepisce.
Io percepisco il dialogo tra il fantasma della madre morte e Pirandello proprio
nel momento in cui la confusione si fa nostalgia.
Mi invento un dialogo tra Alvaro e Cristina Campo pensando che Alice
sia Cristina nel suo essere tigre. Entrambi sono scrittori che se ne fregano
del reale e sanno che vivere è soltanto scrivere la memoria con la
consapevolezza che anche questa è un assurdo dal momento che non si vive più.
Alice è una farfalla che ha lo stupore nelle ali. Muore e rinasce.
Sfoglio pagine di un diario fatto di ritagli
sparsi e leggo da un appunto di Alvarez de Castillo:
“A
voltar pagina mi trovo a guardar ne gli occhi Teresa che ha la passione ruggente
di Cleopatra. Silvia intrappolata nella siepe è morta di nenie e oblio nel
canto notturno di una impossibile malinconia. E Beatrice falsa e cortese si
specchia senza vedersi nelle illusioni di un esiliato senza esilio. Mentre
Laura ha navigato dolce e fresche acque nella nudità della sua incolta
pudicizia.
Io
innamorato resto di Fiammetta che mai negò il trastullo a dire il vero ad una
passione che d'amor esplose. Non rimembrar troppo oh Leo che di contraddizioni
il tuo parlar è degno e di viltà il tuo cammino è un regno. Al contrario di chi
Jacopo si chiamò che mai disdegnò per amor un duello sino a morirci dentro.
Di
storie siam fatti e di destini mascherati ma buona gente credete a ciò che
percepite e mai a ciò che udite. Di donne e amori e guerre le Angeliche son
vissute ma voi amatele senza mai farvi rapire il core.
E se
scelte dovete pur fare di Silvie e Beatrici e gatte lesse non vi contornate
cosi come dei loro cantori che per noia son maestri ma di Teresine e Fiammette
fatene un inno perché la vita è già così grigia che di fuoco abbiam bisogno e
di canti veri siam scarsi ma coraggiosi e imprudenti si muore contenti nella
gloria della Veronica che Franco si chiamò.
Buona gente la maschera non
vi fa onore e la vita sì se al piacere date il dono senza ceder agli imbrogli e
alle apparenze. Ed ora danzate al canto della gioia tra i passi di Gabriella
tutta profumo e cannella e gli inferni i paradisi e i purgatori lasciateli ai
Manzoni ai Monti e ai Montali e fatene un falò per un sorriso in più e una
finzione in meno”.
Il problema si pone tra il descrivere il
dolore e il vivere il dolore. Leopardi si pone davanti a due temi centrali. La
solitudine e il voler amare pensando che amando si possa sconfiggere la
solitudine.
Non riesce ad amare. Perché non sa cosa è il
MISTERO della lacerazione degli amori e sempre vive chiedendo consolazioni. I
suoi "poemi" non sono disperazione. Sono consolazione. Una forma
maniacale.
Cioran non è dolore. È disperazione. Non
cerca consolazione perché sa, come Sgalambro, di vivere la distruzione del
tempo. Il tempo è disperazione. Non la solitudine. Anzi la solitudine è morire
lentamente in libertà. Il disperato è l’inquieto in solitudine che si cerca per
distruggersi.
Leopardi?
Ha scritto sei sette straordinarie poesie... pagine tentate sul piano filosofico come le Operette morali, appunto, e il resto diventa mitizzazione. Porto dentro di me l’Arcano.
Ha scritto sei sette straordinarie poesie... pagine tentate sul piano filosofico come le Operette morali, appunto, e il resto diventa mitizzazione. Porto dentro di me l’Arcano.
La leggerezza del dolore di Leopardi è la
decadenza di Cioran che si disegna nella
morte arcaica di Pavese. Cioran è la mia persecuzione dolce.
Leopardi nei confronti di Pavese è un tenero
e ambiguo allievo.
Foscolo è il vero tragico che ci confronta
con la morte e con la fine della morte in una illusione esasperante. Cioran è
un gigante e usa il linguaggio della consapevolezza che tutto è disperazione.
Leopardi ci racconta la banalità del sabato del villaggio.
Dio per Leopardi è un relativo. Per Cioran e Pavese è il senso del
tragico con il quale, vuoi o non vuoi, bisogna convivere. Seneca dialoga con
Cioran. Con Leopardi si diverte soltanto. Cammino con accanto Pavese e Cioran.
La letteratura si fa con la morte e mai con la illusione di scendere e il
salire le scale appoggiandosi ad una ringhiera.
Leggo ancora Alvarez de Castillo:
“Di
donne la letteratura è gonfia. Di donne perfette e di donne imperfetti. Cosa
sarà mai la perfezione? Un giorno in un convegno mi chiesero la differenza tra
Elena e la donna di Magdala, Maddalena. Rispondere dovrei, mi sono detto. Chi
accoglierei tra le mie braccia? Forse entrambe. Ma no. La prima fu l’artefice
della distruzione di Troia. Ma non c’erano ancora i maghi della croce. La
seconda lasciò il suo mestiere per seguire un prestigiatore venuto da Nazareth
e del quale si era innamorato… Cristo cosa mi fai dire? Elena fu chiara nel
suo. Maddalena aveva perso lo specchio. Già, la solita disputa tra il mito e il
sacro…”.
Ho solo il disamore che mi cammina nelle
parole che d'amore vibrano. Sono stanco per tutto ciò che non ho mai dato e
stanco per un applauso che più non tocca la mia anima. Vienimi incontro.
Sono vivo ma considerami morto. Più morto di
cosi ci sono solo i vivi che non sanno di essere vivi. Chi avrà il bisogno di
sentirsi vivo mentre percepisce che è morto? Chi avrà la forza di sentirsi
morto mentre sa di essere vivo? La letteratura è l’agonia di un sigillo.
La metafisica che ho cercato si è intrecciata
nella mia barba che cresce come i padri del deserto che camminano con la
pazienza della luna nel grido di una preghiera che sempre mancherà al canto
notturno di Leopardi che ha nel suo pianto la logica.
Vivo di ARCANO. Ho sfogliato ancora UNA VOLTA
il vocabolario del mio tempo, viaggiato lungo la grammatica dei simboli per
guardare negli occhi il tempo sommerso che ha la memoria delle favole. Intanto
la mia barba bianca mi regala anni in più. Ed è giusto così. Misteriosamente
ribelle porto dentro di me l’Arcano. La Ragione assurda del tempo che passa e il Mistero
segreto del viaggio di memorie.
Se “La donzelletta vien dalla campagna/in sul
calar del sole”, io a scender nel muto gorgo mi apparto per viver la parola
come agonia del mio tempo.
La letteratura che farò stasera, domani,
dopodomani?
Che domanda da imbecilli!
La letteratura ha la pazienza del silenzio e
il fuoco degli sciamani.
Il fuoco degli sciamani?
Alvarez de Castillo mi raccontò:
“Se
riuscirai a sollevare un’onda di mare quando il mare ha il Levante vuol dire
che sei riuscito a penetrare l’inguaribile tristezza. Non temere. È tutto
finzione, perché tutto è orizzonte…”.
Ma chi è Alvarez de Castillo?
Era nato in Perù, ma non visse in Perù.
Partì. Fece il marinaio di deserti. Si fermò su un isola e dialogò con Cristo.
Si inventarono la vita!
Non si seppe a che età raggiunse il cerchio…
Aveva una incolta barba bianca. Bianca e
grigio scuro. Cambiava spesso cappello. Forse la sua magia era nascosta nei
suoi cappelli. Colorati.
Il destino è mistero. Il mistero è fuoco…
“Quando
ti diranno di me, se mai qualcuno si ricorderà, cerca un granello di sale ed è
lì che mi troverai…”.
Mi lasciò con queste parole, l’ultima volta
che ebbi modo di parlare con Alvarez de Castillo. Raccontò la verità del dubbio
con la certezza dell’indissolubile che navigava nei suoi occhi verdi, quando
diventavano verde mare nei venti d’altura.
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