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martedì 16 gennaio 2018

Alvarez de Castillo raccontò la verità del dubbio senza parole. Chi era Alvarez de Castillo?

Pierfranco Bruni

Chi è Alvarez de Castillo? È difficile poterlo trovare nei libri scolastici. Nelle pagine internet. Mai si inventa. Si inventa ciò che già esiste. La vita è condizionamento. Sempre. Era nato in un piccolo paese del Perù. Andino? Sciamano! Gli sciamani sorridono e dicono il dubbio non affidandosi alla verità, ma alla certezza che la verità è dubbio. Non di domandano: Cosa è la Verità.  
Spesso mi chiedo perché ci sentiamo in un paese delle meraviglie quando siamo in un paese delle disperazioni. La differenza tra disperazione e tragico? La disperazione è Cesare Pavese che non comprende il tragico di Seneca.
Il dolore e la nenia è Leopardi che si inventa una malinconia per diventare personaggio dentro le rimembranze e offre alla filosofia una morale che non può avere. La filosofia non è morale e non ha morale. La filosofia è la follia del tragico che cerca di annullare la disperazione viaggiando dove abita Tiresia.
Condizionamenti! Alvaro Corrado non amava Leopardi. Papini aveva capito che la filosofia delle “Operette morali” diventava un gioco di leggerezza. Gli Illuministi hanno sempre vissuto la leggerezza del nulla non indossando mai maschere, ma diventando dei doppi. Le ambiguità sono vitali in un tempo di incoerenza. La maschera è la recita dei centomila che diventano memorie sommerse.
Enea legge ciò che sarà. Non ciò che è stato, come Ulisse. Ma viene dall’Oriente. Enea è Oriente e Ulisse Occidente. È l'Oriente che inventa Roma paganamente cristiana. Cristo è la Profezia ma anche la Provvidenza. Aveva messo in conto la doppiezza dell’incolto Pietro. Già perché la Profezia è "magia" e la Provvidenza è il "sacro".

 La letteratura o ruota intorno al campo indiano della filosofia o è comicità senza ironia. Viviamo di luoghi comuni. È stato sempre così. Leopardi non è morto di malinconia. Ma di noia. La sua noiosa litania non ha permesso di compiere il gesto estremo. Alvarez de Castillo mi ha insegnato a guardare il tramonto nell’alba e l’alba quando il cielo ha sfere di crepuscolo.

“Non cercati nelle parole del mattino. Neppure nella sera delle parole. Resta in silenzio e dialoga con la Fine dell’Infinito. Osserva i colori… Ti passeranno negli occhi come involontaria attesa…”.

Nella mia vita sono ritornato spesso sulla figura di Alice. Non tanto su quella di Arianna. Alice non solo è una metafora delle allegorie che si trovano nella favole – fiabe.  Vive tra la morte di Pirandello e quella di Alvaro. Il paese delle meraviglie non è un reale che si manifesta. È un immaginario che si percepisce. Io percepisco il dialogo tra il fantasma della madre morte e Pirandello proprio nel momento in cui la confusione si fa nostalgia.
Mi invento un dialogo tra Alvaro e Cristina Campo pensando che Alice sia Cristina nel suo essere tigre. Entrambi sono scrittori che se ne fregano del reale e sanno che vivere è soltanto scrivere la memoria con la consapevolezza che anche questa è un assurdo dal momento che non si vive più. Alice è una farfalla che ha lo stupore nelle ali. Muore e rinasce.

Sfoglio pagine di un diario fatto di ritagli sparsi e leggo da un appunto di Alvarez de Castillo:

A voltar pagina mi trovo a guardar ne gli occhi Teresa che ha la passione ruggente di Cleopatra. Silvia intrappolata nella siepe è morta di nenie e oblio nel canto notturno di una impossibile malinconia. E Beatrice falsa e cortese si specchia senza vedersi nelle illusioni di un esiliato senza esilio. Mentre Laura ha navigato dolce e fresche acque nella nudità della sua incolta pudicizia.
Io innamorato resto di Fiammetta che mai negò il trastullo a dire il vero ad una passione che d'amor esplose. Non rimembrar troppo oh Leo che di contraddizioni il tuo parlar è degno e di viltà il tuo cammino è un regno. Al contrario di chi Jacopo si chiamò che mai disdegnò per amor un duello sino a morirci dentro.
Di storie siam fatti e di destini mascherati ma buona gente credete a ciò che percepite e mai a ciò che udite. Di donne e amori e guerre le Angeliche son vissute ma voi amatele senza mai farvi rapire il core.
E se scelte dovete pur fare di Silvie e Beatrici e gatte lesse non vi contornate cosi come dei loro cantori che per noia son maestri ma di Teresine e Fiammette fatene un inno perché la vita è già così grigia che di fuoco abbiam bisogno e di canti veri siam scarsi ma coraggiosi e imprudenti si muore contenti nella gloria della Veronica che Franco si chiamò.
Buona gente la maschera non vi fa onore e la vita sì se al piacere date il dono senza ceder agli imbrogli e alle apparenze. Ed ora danzate al canto della gioia tra i passi di Gabriella tutta profumo e cannella e gli inferni i paradisi e i purgatori lasciateli ai Manzoni ai Monti e ai Montali e fatene un falò per un sorriso in più e una finzione in meno”.
Il problema si pone tra il descrivere il dolore e il vivere il dolore. Leopardi si pone davanti a due temi centrali. La solitudine e il voler amare pensando che amando si possa sconfiggere la solitudine.
Non riesce ad amare. Perché non sa cosa è il MISTERO della lacerazione degli amori e sempre vive chiedendo consolazioni. I suoi "poemi" non sono disperazione. Sono consolazione. Una forma maniacale.
Cioran non è dolore. È disperazione. Non cerca consolazione perché sa, come Sgalambro, di vivere la distruzione del tempo. Il tempo è disperazione. Non la solitudine. Anzi la solitudine è morire lentamente in libertà. Il disperato è l’inquieto in solitudine che si cerca per distruggersi.
Leopardi?
Ha scritto sei sette straordinarie poesie... pagine tentate sul piano filosofico come le Operette morali, appunto, e il resto diventa mitizzazione. Porto dentro di me l’Arcano.
La leggerezza del dolore di Leopardi è la decadenza di Cioran che si disegna  nella morte arcaica di Pavese. Cioran è la mia persecuzione dolce.
Leopardi nei confronti di Pavese è un tenero e ambiguo allievo.
Foscolo è il vero tragico che ci confronta con la morte e con la fine della morte in una illusione esasperante. Cioran è un gigante e usa il linguaggio della consapevolezza che tutto è disperazione. Leopardi ci racconta la banalità del sabato del villaggio.

Dio per Leopardi è un relativo. Per Cioran e Pavese è il senso del tragico con il quale, vuoi o non vuoi, bisogna convivere. Seneca dialoga con Cioran. Con Leopardi si diverte soltanto. Cammino con accanto Pavese e Cioran. La letteratura si fa con la morte e mai con la illusione di scendere e il salire le scale appoggiandosi ad una ringhiera.

Leggo ancora Alvarez de Castillo: 

“Di donne la letteratura è gonfia. Di donne perfette e di donne imperfetti. Cosa sarà mai la perfezione? Un giorno in un convegno mi chiesero la differenza tra Elena e la donna di Magdala, Maddalena. Rispondere dovrei, mi sono detto. Chi accoglierei tra le mie braccia? Forse entrambe. Ma no. La prima fu l’artefice della distruzione di Troia. Ma non c’erano ancora i maghi della croce. La seconda lasciò il suo mestiere per seguire un prestigiatore venuto da Nazareth e del quale si era innamorato… Cristo cosa mi fai dire? Elena fu chiara nel suo. Maddalena aveva perso lo specchio. Già, la solita disputa tra il mito e il sacro…”.

Ho solo il disamore che mi cammina nelle parole che d'amore vibrano. Sono stanco per tutto ciò che non ho mai dato e stanco per un applauso che più non tocca la mia anima. Vienimi incontro.
Sono vivo ma considerami morto. Più morto di cosi ci sono solo i vivi che non sanno di essere vivi. Chi avrà il bisogno di sentirsi vivo mentre percepisce che è morto? Chi avrà la forza di sentirsi morto mentre sa di essere vivo? La letteratura è l’agonia di un sigillo.
La metafisica che ho cercato si è intrecciata nella mia barba che cresce come i padri del deserto che camminano con la pazienza della luna nel grido di una preghiera che sempre mancherà al canto notturno di Leopardi che ha nel suo pianto la logica. 

Vivo di ARCANO. Ho sfogliato ancora UNA VOLTA il vocabolario del mio tempo, viaggiato lungo la grammatica dei simboli per guardare negli occhi il tempo sommerso che ha la memoria delle favole. Intanto la mia barba bianca mi regala anni in più. Ed è giusto così. Misteriosamente ribelle porto dentro di me l’Arcano. La Ragione assurda del tempo che passa e il Mistero segreto del viaggio di memorie.
Se “La donzelletta vien dalla campagna/in sul calar del sole”, io a scender nel muto gorgo mi apparto per viver la parola come agonia del mio tempo.
La letteratura che farò stasera, domani, dopodomani?
Che domanda da imbecilli!
La letteratura ha la pazienza del silenzio e il fuoco degli sciamani.

Il fuoco degli sciamani?
Alvarez de Castillo mi raccontò:

“Se riuscirai a sollevare un’onda di mare quando il mare ha il Levante vuol dire che sei riuscito a penetrare l’inguaribile tristezza. Non temere. È tutto finzione, perché tutto è orizzonte…”.

Ma chi è Alvarez de Castillo?

Era nato in Perù, ma non visse in Perù. Partì. Fece il marinaio di deserti. Si fermò su un isola e dialogò con Cristo. Si inventarono la vita!
Non si seppe a che età raggiunse il cerchio…
Aveva una incolta barba bianca. Bianca e grigio scuro. Cambiava spesso cappello. Forse la sua magia era nascosta nei suoi cappelli. Colorati.
Il destino è mistero. Il mistero è fuoco…

“Quando ti diranno di me, se mai qualcuno si ricorderà, cerca un granello di sale ed è lì che mi troverai…”.

Mi lasciò con queste parole, l’ultima volta che ebbi modo di parlare con Alvarez de Castillo. Raccontò la verità del dubbio con la certezza dell’indissolubile che navigava nei suoi occhi verdi, quando diventavano verde mare nei venti d’altura.

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