di
Pierfranco Bruni
La
attualità del rivoluzionario che recupera la tradizione. Un tassello importante
per un poeta come Ugo Foscolo a 240 anni dalla nascita. Un percorso che resta
fondamentale in una età della ragione che in Foscolo ritrova la malinconia e il
tempo tragico. Foscolo è la tradizione post medievale ma è anche il rivoluzionario
che annuncia il romantico sentire la vita con la metafisica dell’anima. Infatti
non si può prescindere da una osservazione che si apre alla modernità della
letteratura attraverso il disegno della tradizione e della memoria: “L'arte non
consiste nel rappresentare cose nuove, bensì nel rappresentare con novità”.
Ugo
Foscolo. Il poeta che traccia il silenzio dei “Sepolcri” e la grecità di Zante
nel canto sublime di un ulissismo dolorante. La rivoluzione e l’eresia. Un
binomio che permette di leggere Ugo Foscolo tra il superamento della Ragione e
la “rappresentazione” del rivoluzionario nella sua attualità. Ugo Foscolo.
L’inquietudine dell’intellettuale moderno nell’eresia del rivoluzionario è un
percorso fondamentale per comprende l’agonia di un’epoca e la solitudine di un uomo.
È
uno dei temi centrali e riguarda anche
il ruolo che ha svolto Foscolo a cominciare dall’ode “A Luigi Pallavicina” e
all’ode “Bonaparte liberatore” passando attraverso “Dell’origine e dell’ufficio
della letteratura” sino a toccare i suoi saggi su Petrarca, su Boccaccio, su
Dante.
Ma
è l’impegno del Foscolo che emerge dalle “Ultime
lettere di Jacopo Ortis” che diventa il fulcro intorno al quale ruota la
visione post illuminista e prettamente romantica e risorgimentale oltre che
rivoluzionaria nell’eresia. Su questi aspetti bisogna attentamente riflettere
attraverso elementi filosofici, grazie ai quali si cerca di sottolineare come
il Foscolo vada oltre l’Illuminismo e segna l’inizio di quella decadenza post
rinascimentale sino a toccare l’estetica e l’inquietudine dannunziana.
Infatti
il legame tra Foscolo e D’Annunzio è uno dei perni fondamentali. Così il suo
raccordarsi costantemente con Dante: “Che Dante non amasse l'Italia, chi vorrà
dirlo? Anch'ei fu costretto, come qualunque altro l'ha mai veracemente amata, o
mai l'amerà, a flagellarla a sangue, e mostrarle tutta la sua nudità, sì che ne
senta vergogna”. Così il suo itinerario intorno a Petrarca.
Petrarca
viene vissuto come il poeta della lingua che rinnova in una modernità profonda:
“Benché il Petrarca siasi studiato di ricoprire d'un bel velo la figura di
Amore, che greci e romani poeti ebbero vaghezza di rappresentar nudo; questo
velo è sì trasparente, che lascia tuttavia scernere le stesse forme. La
distinzione ideale tra i due Amori derivò primamente dalle differenti cerimonie
con cui gli antichi prestavano culto alla Venere Celeste, che presedeva
a' casti amori delle zittelle e delle maritate, ed alla Venere Terrestre,
riconosciuta divinità tutelare delle galanterie delle donne più in voga a que'
tempi”.
La
figura e l’opera di Ugo Foscolo, nato a
Zante nel 1778 morto Turnham
Green nel 1827 diventa il fulcro dell’inquieto decadentismo e dell’uomo
completamente libero ed eretico che rompe gli schemi sia dell’Illuminismo che
del Romanticismo e si intaglia nella modernità del cuore dell’uomo.
Sull’inquieto della modernità si scava tra i testi di Foscolo ed emerge un
Foscolo nostro contemporaneo, anticipatore della tragedia ‘nicciana’.
Un
Ulisse in costante fuga e non in viaggio. Una fuga esistenziale, metafisica e
geografica. Ugo Foscolo è, infatti, un
eretico rivoluzionario. Il dolore dell’inquietudine non è solo tra le sue
pagine. È soprattutto nel sua vita di
costante Ulisse in fuga che intreccia il senso e della tragedia e la tragedia
della storia. La storia è nella lingua dei popoli.
Foscolo,
come ebbe a dire De Sanctis, annuncia Leopardi. Lo dichiara sia sul piano delle
realtà semantiche sia su un versante di una lingua considerata come vera
metafisica di un vocabolario in il concetto di parola scava nel dimensione dei
linguaggi:
“Nel
dare principio alla serie de' discorsi intorno alla storia letteraria ed a'
poeti d'Italia, giudico cosa necessaria, quantunque forse non dilettevole, di
premettere l'opinione mia su l'origine della poesia fra gli uomini. Tutti i
ragionamenti su la poesia in generale, e quindi tutti i giudizi intorno alle
qualità ed ai gradi di merito di ogni poeta di tutte le età, e gl'infiniti
canoni e teorie degli antichi retori e de' moderni metafisici si sono sempre
fondate su l'osservazione, «che l'uomo è animale essenzialmente imitatore, e
l'origine della poesia manifestamente ed unicamente ritrovasi nella naturale
tendenza che l'uomo ha di riprodurre ogni cosa per mezzo d'imitazioni.» Da
questa osservazione, che realmente trovasi in Aristotele, sgorgò la conseguenza
che gli fu attribuita, e commentata in mille volumi, «che la poesia non è che
imitazione della natura, e che i poeti eccellenti sono soltanto quelli da'
quali la natura è fedelmente imitata”.
Ciò
porta il viaggio foscoliano verso una eredità che è fortemente dentro la
visione della filosofia dei linguaggi. Odi e Sonetti sono il sublime. I
Sepolcri sono la memoria e l’attraversamento del senso di morte che resta nel
presente. Jacopo Ortis è il personaggio del tragico nella melanconia.
Eliot
nei suoi “Quattro quartetti” recita: “Noi moriamo con quelli che muoiono:/ecco, essi partono e noi andiamo con
loro./Noi nasciamo con i morti:/ecco, essi tornano e ci portano con loro”. In
Eliot vive Foscolo oltre Dante e il viaggio nel regno delle “stelle”. Perché
Eliot è tempo e morte, come nel righello paudiano del viaggio: “Pentimenti sul
passato, noja del presente, e timor del futuro; ecco la vita. La sola morte, a
cui è commesso il sacro cangiamento delle cose, promette pace”.
Qui Ortis è necessità ma anche virtù. In Eliot e
Foscolo è centrale il concetto virgiliano: “Stat sua cuique dies”. Come si vive
attraversando l’Ecclesiaste. Ma è Leopardi che non smette di spingere Foscolo
verso Eliot e in Eliot non c’è il Dante dell’esilio ma della perdita
dell’esilio in profumo di pellegrinaggio. Il Leopardi di “Due cose belle ha il
mondo: amore e morte”, ovvero di “Consalvo”.
Il Leopardi annunciato da Foscolo è qui:
“È purtroppo destino ineluttabile che il tempo
distrugga ogni cosa nel suo fluire perenne”.
La
metafisica dell’illusione si legge nella metafisica della nostalgia. In Foscolo
è il nostos una “malattia” dell’anima che sanguina nei versi dedicati al fratello
e nel suo guardare lo sguardo di Teresa che non ha però gli occhi di Beatrice,
mentre la morte “incespica” nel ricordare.
Il ricordare
è il viatico più potente di ogni destino. Ricordare è destino. Dimenticare è
destino. Foscolo sa che il ricordare è l’ontologia che allontana ogni finzione.
Il tragico si fa più scavante nella memoria e la morte diventa il vissuto nella
vita che si concede al presente. Siamo Sepolcri che non smettiamo di avere
sguardi. Le parole non possono essere cedute alla voce, ma agli occhi.
Il mio
Foscolo è il “vizio” che mi “trascina” a Pavese. Dove l’oltre è soltanto il
“gorgo muto”. Come Pavese, Foscolo resta l’inattuale di un contemporaneo che
aveva ben compreso la malattia della modernità. Dentro questo processo la sua
grecità diventa orizzonte di identità oltre che di eredità.
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