Pierfranco
Bruni
Uno dei suoi primi amori è
stata la Sardegna. Il
territorio di Sassari, dove ha lavorato in Università per vent’anni, è stato
uno dei nuclei centrali delle sue ricerche sulla cultura medioevali e rupestre.
Roberto Caprara, archeologo e storico di architettura è morto il 31 gennaio. Era
nato il 20 agosto del 1930 a
Massafra, una bella cittadina della provincia di Taranto. Roberto Caprara era
stato un attento studioso di archeologia medievale. Docente all’Università di
Sassari, condusse in Sardegna diversi studi e ricerche. La Sardegna era dentro la
sua anima, il suo cuore, il suo linguaggio e le sue parole. Quella civiltà
rupestre, sarda, diventerà parte integrante degli studi successivi.
Un archeologo che seppe
legare il sapere della terra al sapere e alla saggezza dei reperti. I reperti
comprati dalla terra e scavati dentro l’humus ci fanno comprendere i percorsi
storici in sé, l’intera impalcatura architettonica e i modelli di civiltà che
hanno sempre rappresentato un confronto con tutte le altre arti, compresa
quella contemporanea. Si era occupato di architettura rupestre. Laureato in
Linguistica, poneva all’attenzione il legame tra lingua e archeologia, tra
lingua e civiltà rupestre. Si era formato con veri e propri maestri tra
cui Giovanni Nencioni (Presidente
all’Accademia della Crusca) e Giovanni Alessio, il quale aveva dato alle stampe
il famosissimo “Dizionario etimologico della lingua italiana” insieme a Carlo
Battisti.
Roberto Caprara possedeva
una personalità eclettica. Aveva legato il linguaggio della lingua con il
linguaggio degli altri saperi e aveva compreso che il modello dell’archeologia
poteva avere uno sviluppo indipendente rispetto ad altre arti come la storia e
l’architettura. L’archeologia, secondo Caprara, era parte integrante di un
processo di cultura ben definito e la sua posizione, nel legame tra archeologia
e storia, era fondata su principi portanti.
Il mondo bizantino
costituiva una chiave di lettura che riguardava non soltanto l’area storica
archeologica della Puglia (quel mondo medievale nel quale lui era cresciuto)
ma, in modo particolare, gli aspetti della Sardegna. Unire la Puglia e la Sardegna attraverso un
legame in cui i villaggi e le chiese costituivano un’interpretazione delle
civiltà primitive e delle civiltà anche post-medievali, ha rappresentano un
tassello importante nell’attraversare lo sviluppo dei secoli mediante i beni
culturali e quella cultura che rinveniva nel Medioevo un punto di contatto con
le culture successive.
Questo aspetto ha fatto di
Roberto Caprara un preciso conoscitore dell’habitat rupestre, perché è proprio
all’interno dell’habitat rupestre che le civiltà si manifestano nei loro
passaggi epocali in un confronto tra ere storiche e geopolitiche completamente
differenti.
Pensare al mondo della
Puglia in una dimensione rupestre, a quell’area che ha avuto un ruolo dominante
nella Magna Grecia, e collocarla all’interno di una comparazione prettamente
sarda, costituisce un aspetto fondamentale e necessario allo sviluppo di
un’architettura aperta agli altri scibili. Il dibattito sui beni culturali
nell’ambito di queste tre impalcature (archeologia, storia, architettura) ha
rappresentato anche una proposta di comprensione moderna del bene culturale in
sé.
Tutto questo ha
simboleggiato un modello pedagogico, educativo di come affrontare la realtà dei
beni culturali e della sua storia. Con i suoi studi, Roberto Caprara ha coltivato
un messaggio coerente all’interno di una dimensione della cultura e della
conoscenza intese come “beni”, come dimostrano i suoi libri nati da
approfondite ricerche. Mi riferisco ad alcuni suoi testi a partire da “Il
villaggio rupestre della gravina Madonna della Scala a Massafra”, edito dalla
casa editrice Dellisanti. Un lavoro composito, articolato, che poneva
all’attenzione il mondo rupestre della gravina nel mondo di una struttura
articolata quale è la Chiesa.
Risale al 2015 un suo libro
dal titolo “I cavalli dei Re
di Napoli a Massafra e in Puglia nel Quattrocento” (Schena Editore). Un
personale viaggiare tra secoli all’interno delle geografie reali lo ha portato
a scavare in Puglia, a Massafra, nel corso del Quattrocento, il secolo
dell’Umanesimo. Ma la sua visione e la sua ricerca non si fermano qui. Un altro
testo esemplare è stato quello dedicato a Ulisse dal titolo “Vita di Ulisse. Grandezza dell'età eroica e miseria
dei nostri tempi”
(Schena Editore).
Ebbi modo di approfondire il
rapporto con lui, sul piano dell’amicizia, nel 2013, nel momento in cui
pubblicò questo libro su Ulisse (il nostro legame risale, comunque, al 1996
quando parlammo di civiltà rupestre ed io ero vice presidente e assessore alla
cultura della Provincia di Taranto). Dialogai con lui attraverso la mia visione
omerica e mi confrontai con la sua posizione di studioso di reperti e del mito
al quale giungeva mediante lo scavo archeologico. Ritengo che questo libro sia
uno dei più importanti di Roberto Caprara. Già il titolo ci offre la
possibilità di mettere insieme tre modelli e tre paesaggi storici: quello
omerico (e quindi la grandezza eroica, la grandezza del mito e del rito), il
percorso dell’ulissismo in un confronto con il tempo attuale.
Il libro propone questa tesi
della modernità di Ulisse vissuto in un tempo in cui il mito, quindi la
grandezza eroica, aveva il sopravvento. Un personaggio analizzato in una
comparazione con l’epoca attuale considerata “la miseria dei nostri tempi”. La
figura di Ulisse campeggia, ma emerge anche un tempo che non c’è più grazie al
binomio tra mito e realtà, ovvero tra fantasia e verità.
Nel 2001 Caprara aveva
pubblicato “Società ed economia nei villaggi rupestri”, sempre con Schena
Editore, nell’ambito di una visione in cui storia e archeologia si fondono. Un
testo che riflette la visione di un archeologo che si occupa di medioevo e che
ha vissuto gran parte della sua ricerca in Sardegna. L’autore pone
all’attenzione il concetto di società, avente una chiave di lettura sociologica
e antropologica, con gli aspetti di un’economia vissuta nella cultura rupestre.
Un confronto tra società,
antropologia ed economia, mediante la testimonianza del rupestre. Caprara
diviene anche antropologo, oltre che archeologo e medievalista,. L’antropologia
entra nel modello rupestre tramite il termine di “villaggio” inteso come
agglomerato, comunità. Questa società e questa economia vivono all’interno di
una comunità, dato di estrema importanza in una attualità in cui la cultura
diventa bene culturale.
Già in precedenza si era
confrontato su questi temi, essendosi formato nel settore della linguistica e
dell’italianistica. Nel suo interessante libro “Dizionario etimologico e
grammatica del dialetto parlato a Massafra e dei dialetti dell’arco ionico
delle gravine” penetra nello specifico del suo territorio, un filo geografico
che ingloba la cultura propria di una territorio rupestre materano che si
estende fino a Massafra, includendo Ginosa e Laterza. Eppure egli parla
dell’arte delle gravine, del vivere in gravina, e lo fa attraverso lo studio
del dialetto e della lingua, riscoprendo il valore della lingua dialettale al
fine di rivalutare il significato della civiltà rupestre.
Nel “Libro rosso di Taranto.
Codice Architiano 1330 – 1604” ,
pubblicato con la Società
Storia Patria di Bari, Caprara, affondando le mani nei
documenti, mette in luce un passaggio straordinario partendo dal Trecento e
giungendo all’epoca barocca. Senza il tessuto della ricerca e della
scientificità non si offre una ricostruzione certa a un percorso di civiltà e,
quindi, a un percorso culturale. Un lavoro editoriale nel quale viene messa in
atto una delle sue manifestazioni maggiormente scavate nell’anima di un popolo.
Il verbo “scavare “ non è
usato metaforicamente. Si scava per riportare alla luce, mediante i frammenti,
una cultura, una civiltà. Leggere la cultura e la civiltà di un popolo
significa dare un senso non soltanto al proprio territorio, ma al proprio
modello di vissuto. Tutto questo ha rappresentato Roberto Caprara. Tra l’altro
fu uno degli attenti studiosi dei progetti sulle vie dei Pellegrini.
Quegli anni vissuti in
Sardegna lo hanno profondamente formato e caratterizzato. I villaggi sardi
hanno impresso un marchio notevole a un modello di ricerca che si è andato
definendosi nel corso della sua formazione. La fase finale dei suoi studi lo ha
avvicinato all’archeologia post classica in cui l’archeologia cristiana assume
un’importanza rilevante. Approfondì le sue ricerche presso il Pontificio
Istituto di Archeologia Cristiana di Roma e presso l’Istituto di Antichità
Bizantine e ravennate di Ravenna dell’Università di Bologna. Visse per circa
vent’anni tra Puglia, Sardegna e Toscana.
È morto il 31 Gennaio del 2018. Aveva 88 anni.
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