Di Marilena
Cavallo
Perché
studiare ancora oggi Gabriele D’Annunzio?
Per
entrare nei “giardini” della sua poesia, attingere al suo “novo canto” e
giungere alla panica percezione dell’Uno che incontra il Tutto della Natura,
per scrutare i silenzi del suo Notturno,
sino a libro più segreto della sua vita.
E’
come se entrassimo in punta di piedi nell’Officina del Vittoriale, casa-museo e
rifugio del Poeta, e fossimo accolti da versi che abitano silenti il mondo
poetico, caro al fabbro-Vate; come se potessimo ascoltare gli oggetti a lui
cari parlare di quel febbrile lavoro di cui questo sacro sito poetico resta
singolare testimone.
Il
materiale incandescente della sua poesia del Vate resta per noi incorniciato
dall’architrave, su cui come un monito campeggia il verso di Virgilio “Hoc opus
hic labor est”.
Tanti
risultano essere i motivi, ancora validi, per incontrare Gabriele D’Annunzio,
il poeta – scrittore, che ha maggiormente contaminato i linguaggi di una
letteratura ancorata, tra fine Ottocento e i primi anni del 1900, ad una
visione tardo romantica, la cui visione estetica ha avuto in Benedetto Croce un interlocutore non
facile.
Entrambi
sono stati degli innovatori.
Entrambi
si sono confrontati con un secolo di svolta: il Novecento.
D’Annunzio
comprese immediatamente che allo scrittore occorreva un nuovo metodo di
confronto con i lettori, attraverso un
approccio tematico-problematico, immediatamente comunicativo.
Egli
immerso sin dall’età di quindici anni nella poesia, alimentatosi alle matrici
letterarie di uno scrivere “militante”, capovolse nel tempo il sistema della
tradizione linguistica.
Innovatore
del verso carducciano e con Pascoli della semantica della parola all’interno
dei versi, giunse ad una musicalità estrema proprio con il ritmo e il sistema
pre- e post-endecasillabo, caro alla poesia eolica e ellenica.
“La
pioggia nel pineto” sembra un “salto”, una sperimentazione lirica rispetto al
contesto poetico del suo tempo e alla sua stessa poesia precedente. Il verso
diventa non più contemplativo soltanto, ma recitativo. Ovvero entra sulla scena
della poesia una musicalità completamente rivoluzionata nella forma metrica.
Ciò
era avvenuto anche con i suoi romanzi. Il
piacere è nella modernità dello stilema francese e spagnolo. Quando afferma
che il “verso è tutto” non innova il linguaggio rivoluzionandolo, ma lo innova
nella tradizione.
La
poesia è il “suo” laboratorio di partenza, per poi lasciarsi attraversare dal
romanzo sino a giungere alla musicalità della parola nel 1903, ma già con
l’esperienza precedente del 1900, con il romanzo Il fuoco, promuove l’estetica dello scrivere senza guardare la
parola.
Avvincente
è la parabola della sua poetica, dalla luce della pioggia che fa da specchio
alla parola al buio della notte in cui la parola la si ascolta soltanto, come
nel caso del Notturno, per una
evocazione di tempo e di misura che si consuma nel suo ultimo libro che è il
libro segreto.
D’Annunzio
resta un provocatore di estetiche decadenti, che provengono dal senso tragico
che è tutto dentro il romanzo di base che resta Il trionfo della morte. Dopo questo romanzo nasceranno i versi
alcionici.
Trionferà
la decadenza dell’esistenza.
Tra
“La pioggia nel pineto” e il Notturno,
il “guerriero” D’annunzio, che cerca Ermione, non resterà in attesa. Vivrà nel
teatro inimitabile, in quella contemplazione segnata sul volto di un uomo che
ha troppo vissuto.
Lo scrittore e l’uomo saranno
intrecciati da questa consapevolezza: “La nostra vita è un'opera magica, che
sfugge al riflesso della ragione e tanto più è
ricca quanto più se ne allontana, attuata per occulto e spesso
contro l'ordine
delle leggi apparenti.”
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