di Pierfranco Bruni
Gillo Dorfles (2008) |
Cercò di legare i processi estetici di
un’opera d’arte, o soltanto del Pensiero, alla ricerca antropologica attraverso
una chiave di lettura, in cui la storia avrebbe dovuto condurre il percorso tra
cultura e bene della cultura. Raccontò il tempo dell’arte nella visione di una
realtà come visione della bellezza. Un tempo in movimento. Ebbe a dire al
“Corriere della Sera”, il 16 gennaio 2019, che “L'arte non prescinde dal tempo
per esprimere semplicemente lo spirito della Storia universale, bensì è
connessa al ruolo delle mode e a tutti gli ambiti del gusto”.
Mi riferisco a Gillo (ovvero Angelo Eugenio
conosciuto come Gillo) Dorfles. Era nato a Trieste il 12 aprile del 1910. E’
morto a Milano il 2 marzo del 2018. Un filosofo dell’estetica oltre ad essere
stato pittore e critico d’arte. Ha attraversato le “epopee” delle avanguardie
confrontandosi costantemente con la dialettica de eredità culturali, che ha
assorbito tutto il Novecento.
Ha sperimentato l’estetica non solo in una
funzione riflessiva intorno ai linguaggi del pensiero, ma anche vivendo l’arte
come estrema conseguenza di una esistenzialità
sulla pratica.
Pensare l’arte, dal punto di vista critico, e
fare arte. Questo il binomio sul quale ha viaggiato Gillo. Ha saputo anticipare
la crisi dell’estetica leggendo con acutezza la modernità con la quale non ha
mai smesso di confrontarsi. I suoi libri vanno proprio in questa direzione.
Già a cominciare dalla sua interpretazione
sul Barocco come espressione nell’architettura moderna (del 1951) sino a soffermarsi
su Vico, e toccando la stimolante visione dei linguaggi di Wittgenstein con un saggio di estrema importanza dal titolo “L’estetica
del mito” del 1967, Dorfles pose come riferimento il dato di recuperare il
senso della bellezza lavorando intorno al concetto di estetica dello sguardo e
del senso. Come dato centrale il Barocco e il Rinascimento nel Barocco. Ebbe a
scrivere: “Non dico che sia sparita la bellezza ma di certo è
cambiato il gusto appiattendosi verso il basso. Se guardiamo ad altre epoche,
come il Rinascimento o il Barocco, il gusto aveva dei canoni molto precisi e
rigorosi”.
Aspetti che si troveranno qualche anno dopo proprio rappresentando il
valore di senso e di insensatezza nell’arte (1971) che ha trovato la sua
sintesi massima in un testo del 1987 dal titolo, appunto, “Itinerario estetico”
non trascurando mai il lessico dei feticci che campeggiano nel crogiolo tra
storia e tempo.
Si è sempre posto, in un contesto dialettico,
il problema dell’importanza educativa dell’arte e dei linguaggi, tanto che
scrisse: “Ci sarebbe tutto un lavorio da svolgere, a cominciare dall'educazione
artistica e musicale dei bambini. Ma siamo ai minimi termini da un punto di
vista pedagogico. Comunque non bisogna rassegnarsi. La forza della sensibilità
estetica – senza barriere di generi e linguaggi e applicata al quotidiano – è
indispensabile per contrastare la dittatura dello sgradevole”.
Una posizione forte e imprescindibile
soprattutto in una temperie di decisivi sradicamenti e di sfaldamento della
bellezza. Da questo punto di vista è molto duro Gillo ed ha delle idee solide
sulla questione della modernità. Infatti
ci diceva che “La gente ama mettersi a nudo per autorappresentarsi. Una
volta non era così, ma oggi con i media vecchi e nuovi c'è un'orgia del vedere
e del voler essere visti. Il che tocca non solo le masse ma anche le elites, i
pensatori, gli imprenditori, i banchieri, per non dire degli artisti”.
Un epilogo che sottolinea coraggiosamente “Estetica senza dialettica. Scritti dal 1933 al 2014” che
risale al 2016, curato da Luca Cesari e in “L'intervallo
perduto”, un saggio ripubblicato nel 2012 ma è del 1980.
Ho trovato un punto di non ritorno, e di incontro, con Gillo, nei
nostri dialoghi decennali, in due testi che continuano ad accompagnarmi sia sul
piano estetico che antropologico e filosofico. Mi riferisco a “Elogio
della disarmonia. Arte e vita tra logico e mitico” del 1986 e ripubblicato nel
2019 e in “Horror Pleni. La (in)civiltà del rumore” del 2008, senza trascurare
assolutamente “Conformisti. La morte dell'autenticità” del 2008, curato da
Massimo Carboni.
Un itinerario, dunque, abbastanza articolato in cui il tempo dell’arte
è sempre un tempo invisibile nella visibilità della metafora della memoria.
L’artista è sempre oltre l’arte stessa. Ha rivoluzionato il pensiero sull’arte
accogliendo la dissolvenza dell’arte stessa e la morte dell’arte.
Non un artificio ma una cancellazione del dissolubile. L’arte è
indissolubile fino a quando la bellezza non presenterà perplessità ad una
civiltà che corre inesorabilmente verso le bruttezze. Cercava, in fondo, la
bellezza nella dissolvenza e nella “rimanenza” dell’estetica dell’arte : “Il kitsch è un
concetto che pervade l’arte, gli oggetti e il nostro vivere quotidiano. Troppe
informazioni, troppe immagini, troppi libri: c’è un eccesso di tutto e il bello
muore”. Infatti: “La vera opera d’arte esiste solo in contrapposizione al
kitsch”, ovvero al brutto. Al Dis – gusto!
Nessun commento:
Posta un commento